Ogni incontro che fai è un incontro con te stesso; pochi sembrano accorgersi che gli altri sono loro. C.G. Jung. Ciò che mi colpisce nei pazienti che vedo nel mio studio di Torino è spesso la loro convinzione di essere “Uno”. Certo, il Mario che si reca al lavoro non è lo stesso Mario che agisce nella vita privata. Non è questo di cui non si è consapevoli.
Non è neppure la visione che Pirandello ci restituisce nel suo romanzo Uno, nessuno e centomila. In esso spiega come l’uomo si nasconda dietro una “maschera” che non permette di conoscere la propria personalità. Nella realtà quotidiana gli individui non si mostrano mai per quello che sono, ma assumono una maschera che li rende personaggi e non li rivela come persone. E’ invece il fatto che in noi esistono delle “parti”, che hanno funzioni e origini differenti
Alcune di esse emergono soprattutto nella relazione con il nostro partner, mentre altre quando usciamo con gli amici o ci troviamo in situazioni lavorative magari un pò complicate. Non abbiamo consapevolezza di ciò, e quando “stiamo male” o sviluppiamo dei sintomi è proprio perché una di queste parti prende il sopravvento e dirige il gioco della vita senza che le altre possano intervenire.
Le “parti del sé” si intendono tutte le parti che costituiscono la persona e possono essere davvero molteplici e diverse
Secondo Forgash e Copely (2014), la personalità è composta anche da parti del sè o stati dell’Io e nelle persone che non hanno dovuto affrontare un trauma o più traumi irrisolti, si rappresentano come coese e integrate.
Come ad esempio, la parte bambina, la parte adulta, la parte che prova un certo sintomo, la parte determinata, la parte ironica, la parte che difende o protegge….Tali parti quando sono ben integrate, la persona seppure in situazioni diverse e in ruoli diversi prova un senso di continuità, si sente centrata e sceglie come “giocare” le proprie parti a seconda dell’ambiente in cui si trova.
Al contrario quando la persona cresce in un ambiente relazionale disorganizzato o insicuro e sperimenta eventi di vita traumatici non risolti, la percezione di sé può essere molto diversa. La personalità potrebbe andare incontro ad una frammentazione delle proprie parti e sperimentare la spiacevole sensazione di non sentirsi costantemente se stessi.
Lo scopo del percorso psicoterapeutico è prendere consapevolezza della loro esistenza, imparando a conoscerle, a dare loro un’età ed anche un nome se necessario e soprattutto a far si che dialoghino tra di loro affinché si esprimano in modo equilibrato. Così facendo non prenderanno il sopravvento e noi non saremmo obbligati a difenderci da loro proiettandole all’esterno.
Non siamo di fronte a patologie (o almeno non così spesso come si creda
Ma al normale funzionamento psichico di ogni essere umano che si sviluppa a partire dalle esperienze infantili , dalle relazioni con la nostra famiglia d’origine e dall’ambiente nel quale ci siamo trovati a “crescere”, con tutte le conseguenti esperienze affettive, più o meno “sane ed equilibrate”.
In situazioni non traumatiche queste parti hanno confini equilibrati e “fluidi” e sono in grado di “dialogare tra di loro” senza problemi. Sono persone che non hanno problemi a passare “da una parte all’altra del sé” senza neppure accorgersene e soprattutto in modo adeguato al contesto nel quale si trovano ad agire.
Se però durante lo sviluppo “le cose si complicano” (ed ahimè spesso le cose si complicano e anche molto!) allora i confini tra le parti diverranno molto più rigidi e si svilupperanno “parti protettive” con lo scopo di proteggere appunto il soggetto dai traumi subiti (solitamente durante il periodo infantile). Più il trauma è pesante più la parte protettiva farà da padrona.
E’ risaputo però che “il troppo stroppia” e quindi anche l’eccessiva protezione finirà con il bloccare il paziente portandolo a sviluppare una sintomatologia a volte anche molto invalidante. Quindi se è vero che “le strade dell’inferno sono lastricate delle migliori intenzioni” e’ anche vero che la parte protettiva è stata molto utile perché ha permesso al soggetto di non arrestare il suo sviluppo al tempo del trauma.
E’ un pò ciò che C.G. Jung (con altre modalità e una concettualizzazione ben diversa) chiama l’Ombra, che se non riconosciuta ed integrata prenderà il sopravvento. Lo scopo della terapia è accogliere queste parti protettive, dialogare con loro, “ringraziarle per il lavoro svolto” ma al fine di andare a recuperare ciò che esse nascondono ovvero le parti ferite (da abusi, violenze, trascuratezze etc).
Oltre a ciò è necessario soprattutto rinforzare la parte adulta che è poi quella che ha permesso alla persona di chiedere aiuto, anche attraverso il sintomo. Certo esso fa soffrire ma è bene ascoltare ciò che ha da dirci perché è con le parole che usa che possiamo andare a fondo e permetterci di “congedarlo” poiché ha terminato la sua funzione.
E20 alla fine le nostre varie parti non ci faranno così paura
Da loro avremmo imparato qualcosa di più su noi stessi. Come mi disse un mio paziente un giorno dopo un lungo (e doloroso) lavoro fatto sulla sua parte protettiva e sui sintomi che essa aveva sviluppato, appunto per proteggerlo: “Stasera porto in pizzeria la mia parte Cicciobello. Se l’è meritata”.
A cura di Sabina Natali, psicoterapeuta con studio a Torino
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