In un mondo che non sa smettere di parlare, rischiamo di non sapere più ascoltare.
“L’incapacità dell’uomo di comunicare è il risultato della sua incapacità di ascoltare davvero ciò che viene detto.” – Carl Rogers
“Il complimento più grande che mi è mai stato fatto fu quando uno mi chiese cosa ne pensassi, e attese in silenzio la mia risposta.” -Henry David Thoreau
Vi propongo, a partire da queste citazioni, di fare un piccolo esperimento: pensate all’ultima conversazione che avete avuto con un amico, alla telefonata che avete ricevuto da una vecchia compagna di scuola o, in questo periodo particolare, all’ultima videochiamata di gruppo che avete organizzato con amici o familiari.
La voglia di condividere con i vostri cari quello che stavate facendo e quali nuove abitudini stanno scandendo le vostre giornate, in particolare se in quel momento eravate di buon umore, sarà stata medio/alta.
Tuttavia, nel parlare, quanto vi siete sentiti ascoltati? Quanto avete percepito gli altri curiosi e realmente interessati a quello che stavate raccontando? E quanto, invece, avete trovato difficoltà a rispettare i turni della conversazione e avete percepito una sensazione di fretta, come se di fatto la conversazione diventasse un rincorrersi per aggiudicarsi il diritto a poter dire qualcosa?
Con questo non voglio assolutamente dissacrare e rischiare di “inquinare” le conversazioni così tanto preziose e di conforto in questo periodo con i nostri cari.
Ci saranno stati sicuramente, e fortunatamente scambi diversi, con persone diverse, con gradi diversi di piacevolezza e di intimità. Quello su cui voglio però porre l’attenzione, in questo contesto, riguarda il feeling che avete con le sensazioni appena descritte di non essere davvero ascoltati in una conversazione, le avete mai percepite? Vi suonano come familiari in un certo senso?
La società ci vuole protagonisti
La cultura occidentale è indubbiamente organizzata intorno all’individuo. Ci vediamo come singole entità e riteniamo che il nostro destino sia di esprimere noi stessi, perseguire la nostra felicità, essere liberi da vincoli indebiti e raggiungere i nostri obiettivi.
Non ci piace sottometterci alla volontà del gruppo, o almeno non ci piace pensare che lo facciamo. Non sorprende dunque che la nostra società dia valore e promuova tratti come l’individualismo, la spavalderia e le capacità dialettiche: viviamo sempre più in un mondo in cui l’importante non è “cosa dici”, ma “come lo dici, come ti poni”; l’autenticità del contenuto rischia spesso di essere plasmata dall’influenza che si vuole avere sull’interlocutore.
Certo, abbiamo tutti un’opinione e ben venga che sia così, è nostro diritto e, anzi, nostra natura, osservare, valutare e riflettere sulla realtà che ci circonda e voler condividere il nostro pensiero.
Tuttavia, spinti dall’irrefrenabile istinto di dire la nostra, di raccontare tutto quello che anima la nostra vita, di farci sentire, spesso dimentichiamo una parte fondamentale che è, in fondo, l’altra faccia della medaglia del parlare e insieme il requisito perché sussista un dialogo e una conversazione: l’ascoltare.
Il vento ulula, ma la montagna resta immobile
Recita un antico proverbio giapponese “Il vento ulula, ma la montagna resta immobile”. Ascoltare, oltre che una capacità, viene ritenuta dagli asiatici un’arte. Nella cultura orientale l’individualismo, la sicurezza di sé e l’esibizionismo vengono sostituiti dai valori del silenzio, dell’umiltà e della sensibilità, caratteristiche tutte che favoriscono la coesione del gruppo e la vita comunitaria.
In Asia gli individui si considerano parte di un insieme più grande – che sia la famiglia, l’azienda, la comunità – e danno grandissimo valore all’armonia all’interno del gruppo stesso, spesso subordinando i propri desideri agli interessi del gruppo.
Estroversione e introversione
Da decenni gli studiosi indagano le differenze culturali che contraddistinguono popolazioni così differenti come quelle occidentali e quelle orientali.
Lo psicologo Robert McCrae, ad esempio, ha dedicato anni della sua vita allo studio delle differenze interculturali di personalità tra Oriente e Occidente ed è giunto ad analizzare soprattutto la dimensione introversione-estroversione.
Da un suo studio, che metteva a confronto bambini di Shangai e dell’Ontario del sud, di età compresa tra gli otto e i dieci anni, si è scoperto che in Canada i ragazzini timidi e sensibili tendevano a essere emarginati mentre in Cina gli stessi tratti vengono apprezzati e, con più probabilità, ritenuti necessari per assumere posizioni di leadership.
I bambini asiatici sensibili e riservati vengono definiti dongshi (comprensivi), una popolare espressione di elogio; analogamente gli studenti cinesi delle superiori riferivano a McCrae e ai suoi ricercatori di preferire come amico chi è “umile, altruista, pacifico e sincero”, mentre gli adolescenti americani prediligono la compagnia di ragazzi “gioiosi, entusiasti, loquaci e socievoli”.
Gli occidentali sembrano quindi enfatizzare la socievolezza, la loquacità e dare molta importanza agli attributi che consentono di creare numerosi legami sociali e di apparire nella società; gli orientali sembrano invece apprezzare attributi più profondi e connessi alle virtù morali, come la comprensione e l’ascolto.
Federica Rossi, psicologa specializzata in Neuroscienze Cognitive
Disponibile per terapia online. Contatti: 3386418419
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