Insegnare ai figli l’alfabetizzazione emotiva: stereotipi e false credenze

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Psicologa e Psicoterapeuta analitica in formazione, con utilizzo della Sand Play Therapy e psicodiagnosta con Test Rorshach e altri test. Riceve online e nel suo studio di Empoli.


Com’è il bambino normale? Forse si limita a mangiare, crescere e sorridere dolcemente? No, non è affatto così. Il bambino normale, se ha confidenza con la madre e il padre, supera davvero se stesso. Col tempo, sperimenta la sua capacità di provocare scompiglio, distruggere, spaventare, logorare, devastare, ingannare e trafugare…. All’inizio, ha un assoluto bisogno di vivere in un ambiente pieno d’amore e di forza (e quindi di tolleranza) – altrimenti avrà troppa paura dei suoi stessi pensieri e delle fantasie per progredire nel suo sviluppo emotivo. – Donald Winnicott.

Dalla pedagogia nera alla tolleranza contemporanea

I futuri genitori alla nascita di un figlio si trovano di fronte alla scelta sull’educazione che vogliono impartire ai loro bambini. Solitamente, l’impostazione culturale vigente in una determinata epoca, fa da padrona. Vari sono stati gli stili educativi di moda, quindi chi non è più giovanissimo ricorderà senza dubbio la Montessori, che durante gli anni 60, guidava i futuri genitori con le nuove conoscenze, che andavano a colmare paure e ansie, di chi si apprestava a fare, uno dei mestieri più difficili, se non impossibile, quello di genitore. Di solito i maschietti e le femmine, ricevono due differenti stili educativi.

Per fortuna il tempo in cui i figli andavano raddrizzati finché erano ancora piccoli, come se fossero pezzi di ferro da forgiare, quando ancora caldi possono essere modellati e plasmati a piacimento, sono diventati sempre meno frequenti.

I danni causati da questo stile educativo, che Alice Miller, ha chiamato pedagogia nera, riprende lo stesso concetto, utilizzato da Katharina Rutschy, del suo un libro del 1977, dove vengono impartite “raccomandazioni pedagogiche” usualmente seguite in Germania nel XIX, sui metodi del Dott. Schreber.

Obiettivo della pedagogia nera, era quello di ridurre i bambini nella incondizionata obbedienza e sottomissione agli adulti, nella convinzione che la natura cattiva del bambino sarebbe stata così adeguatamente corretta, con metodi che prevedevano anche l’uso di punizioni corporali, oltre che psicologiche.

I metodi educativi, improntati a questo stile educativo, a causa della loro elevata intensità, lasciano traccia nella memoria episodica. Perciò quello che probabilmente il bambino si ricorderà sarà, soprattutto, il luogo in cui si trovava, il viso distorto dalla collera del genitore, la paura che aveva ma niente (o poco) della lezione che si voleva impartire.

Nonostante si siano dimostrati i danni che tale stile educativo causi, ho sentito purtroppo anche giovani donne rifarsi a questa pedagogia. La migliore disciplina è sicuramente quella che fa leva sull’amore del bambino e sul suo desiderio di compiacere i propri genitori. Se quell’impulso viene rispettato e coltivato, i bambini continueranno a essere psicologicamente accessibili attraverso l’amore e il rispetto.

Se invece verranno ingiustamente costretti a vergognarsi, se saranno puniti troppo duramente o se si scontreranno verso una collera eccessiva da parte degli adulti, ben presto reagiranno all’autorità opponendo resistenza, invece che con il desiderio di fare meglio.

Attualmente i diritti dei più piccoli, vengono tutelati a livello legale, morale politico ed economico, dalle norme inscritte nella “Convenzione sui diritti del fanciullo” -New York 20.11.1989.

Certamente anche lo stile educativo con il quale siamo cresciuti ha creato una sorta di imprinting e molti genitori, hanno preso a modello il modo in cui sono stati cresciuti dalla propria famiglia di origine: se tale modello è ritenuto positivo, o all’opposto nell’esatto contrario, se ancora ricordano il dolore causato dal modo in cui venivano corretti e rimproverati.

Dall’educazione comportamentale e all’educazione emotiva

Purtroppo però anche nel migliore dei casi, è raro che un genitore si metta ad insegnare ai figli l’alfabetizzazione emotiva, che comporta una capacità di sapere riconoscere come si manifestano le principali sensazioni associate alle nostre emozioni. Con queste capacità acquisite, si può comprendere meglio noi stessi e gli altri.

Le emozioni primarie: Rabbia – Paura – Felicità – Disgusto – Sorpresa – Tristezza, sono comuni a tutti gli individui, indipendentemente dalla cultura a cui si appartiene. Fornire al bambino la consapevolezza di queste 6 emozioni universali e le varie sfaccettature, significa regalargli un mondo pieno di emozioni e una chiave in più per interpretare la realtà.

Oltre che comprendere la complessità della vita emotiva, fa migliorare le nostre relazioni personali e professionali aiutandoci a rafforzare i legami che arricchiscono la nostra vita.

Questa alfabetizzazione emotiva viene costruita in primo luogo imparando a identificare e nominare le nostre emozioni. In secondo luogo riconoscendo i contenuti emotivi della voce e delle espressioni facciali, ossia il linguaggio del corpo; in terzo luogo comprendendo le situazioni o le reazioni, che producono i diversi stati emotivi.

La nostra cultura, vuole che alle figlie femmine venga data più frequentemente, la lettura di queste emozioni, incoraggiandole a scoprirle in sé stesse e negli altri.

L’educazione emotiva impartita ai maschi

Ai maschi chissà perché questa educazione emotiva non viene data. I motivi sono perlopiù dettati da canoni culturali, dal fatto che, si pensa questa capacità insorga da sola, come la pubertà, o perché si teme di creare figli fragili ed effemminati, quindi deboli.

Questa incompetenza emotiva che caratterizza i giovani maschi, verrà pagata a caro prezzo lungo tutta la vita e li vedrà esprimere i propri stati sentimentali sempre nello stesso modo, quello nel quale la cultura del gruppo li ha abituati ad esprimersi, con rabbia, aggressività e isolamento emotivo.

Spesso si crede che poiché ai maschi piace la competizione e la lotta per raggiungere il successo, siano fin da piccoli insensibili e privi di bisogni emotivi. Vengono per questo allevati facendo leva sul fatto che da veri uomini devono lasciare perdere tutto ciò che riguarda il lato emotivo.

Le fragilità ed insicurezza vengono fronteggiate dicendo loro spesso frasi del tipo “dai se sei un vero uomo non piangere”, “non fare la femminuccia”. Facendo così però si lascia dentro di loro un buco nero, fatto di solitudine ed incertezza, che andrà coperto con una dura corazza.

Prendere contatto con la controparte interna femminile dell’uomo, come dice Jung, “l’anima”, aiuta questa consapevolezza, così come la controparte maschile, “Animus”, per la donna, la rende meno fragile ed indifesa.

Giovani adulti e adolescenti, quando riescono a far breccia nel loro lato più sensibile, rivelano di aver molto sofferto nel profondo per l’educazione emotivamente distruttiva che spesso viene impartita loro.

Il tormento interiore si può esprimere nel fallimento scolastico, nella depressione, nella dipendenza da droghe, nelle relazioni interpersonali difficili e nella delinquenza.

Essi hanno bisogno di un ricco vocabolario emotivo, che espanda la loro capacità di esprimersi senza far ricorso alla rabbia ed aggressività. Devono essere incoraggiati a servirsi della propria empatia, tanto dalla madre quanto dal padre in modo da poter crearsi una propria identità.

Il ruolo del padre nell’educazione dei figli

In una ricerca condotta, sull’educazione emotiva e sull’empatia, eseguita nell’arco di 26 anni su bambini di entrambi i sessi dai 5 anni ai 31 anni, si è dimostrato le implicazioni positive dello sviluppo emotivo di quei figli i cui padri hanno avuto un ruolo attivo nell’educazione degli stessi, fornendo loro un modello, non di duro “macho”, ma di una persona, che sappia prendere contatto con le sue debolezze e fragilità, questo li aiuta enormemente lungo tutto l’arco della vita e li rende più resilienti.

La madre dall’altro canto deve fornire, quella base sicura ed essere “sufficientemente buona” ad accogliere e contenere i figli e sintonizzarsi con loro a livello emotivo.

I padri, che diventano compagni di giochi ed hanno con i figli uno stile attivo e stimolante, favoriscono uno sviluppo cognitivo ed emotivo, oltre a favorire protezione per quel che riguarda il pericolo di incorrere in comportamenti a rischio e delinquenziali in età adulta.

Non è assolutamente vero che coccolando un figlio e standogli vicino emotivamente, si crei una persona troppo sensibile e piagnucolona.

Il fatto di essere accettato e confortato, dal padre e dalla madre, anche nei bisogni emotivi, equipaggiandolo magari di quelle parole che non hanno ancora per descrivere i propri stati d’animo, li aiuterà a capire meglio sé stessi e gli altri, riuscendo così ad empatizzare con i loro stati d’animo. Questo approccio empatico aiuterà i bambini a diventare adulti più equilibrati e non eccessivamente induriti per affrontare il mondo.

Se riusciranno a manifestare le loro paure senza cercare di soffocarle, saranno sicuramente adulti migliori, più resilienti e più a contatto con i loro stati interni.

Questi giovani, non dovranno adottare per forza quei comportamenti con i quali hanno preso dimestichezza durante la crescita, ossia competere, controllare e criticare. Impareranno questa seconda lingua, che li aiuterà per tutta la vita a essere persone migliori e più forti.

Autore: Dott.ssa Paola Cervellati, psicologa
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