Che opinione ha di me, chi mi conosce? Ho le carte in regola per farcela? Pensare a se stessi in termini di valore è un’abitudine tipica di tanti. E, anche, fonte di sofferenza. Autostima. Questa parola è ormai entrata a far parte del linguaggio quotidiano. Se ne parla nei blog, sui social, in tv. Dovunque puoi trovare consigli per fare pace con te stesso.
Suggerimenti che, però, possono generare confusione. Il principale malinteso? Equiparare l’autostima alla fiducia nelle proprie capacità. Ebbene, stimarsi e credere in se stessi non sono sinonimi. Reputarsi in grado di far fronte a nuove sfide, di adattarsi, di superare le difficoltà. Confidare di essere capaci di sostenere un colloquio di lavoro; di fare nuove amicizie; di imparare un mestiere. Questa è autoefficacia.
L’autostima, invece, non dipende dai mezzi o dalle risorse che ritieni di possedere, ma da ciò che senti di te stesso. Se questa definizione ti sembra oscura, continua a leggere. Quanto segue, forse, potrà fare un po’ di chiarezza.
Ecco come si forma l’autostima
Saper rispondere con un elenco di caratteristiche, di pregi e di difetti, alla domanda “chi sono io?” è facile per un adulto. Ma non per i bambini. Se i più piccoli non valutano se stessi in questi termini è perché non hanno ancora formato il cosiddetto senso di sé.
Una fortuna, la loro, purtroppo non duratura. Come tutti, crescendo sviluppano una sorta di racconto. Anche tu ne hai uno, e può parlarti di te come di una persona apprezzabile, amabile. O indurti a considerarti sbagliato, immeritevole d’affetto, ad aspettarti critiche e riprovazione a causa delle tue mancanze. E, giorno dopo giorno, condizionarti nel modo d’essere e di sentire.
Il bambino, fin dalla nascita, osserva, apprende. Nell’interazione con i più grandi, e in particolare con i genitori, i piccoli imparano a chiedere e ricevere supporto, a volere bene, a comprendere le emozioni altrui e a esprimere le proprie. In fondo, la qualità del rapporto con noi stessi dipende anche da come siamo stati trattati durante quei primi anni.
Sentiremo di meritare amore se ci siamo sentiti amati, ci aspetteremo aiuto se siamo stati ben accuditi, sapremo chiederlo se, in origine, chi avrebbe dovuto proteggerci ha svolto il compito affidabilmente.
Determinate esperienze inducono il bambino a formarsi un’idea critica, sprezzante di sé. Il distacco e la freddezza, l’abitudine al giudizio, la dominanza e l’aggressività sono solo alcuni degli atteggiamenti genitoriali responsabili della cattiva autostima dei figli.
Il comportamento di chi ha una cattiva autostima e quello di chi, invece, ne ha una buona
Hai trascorso un’infanzia nella trascuratezza? Ebbene, forse non è perché sei immeritevole d’amore. Sei stato spesso criticato? Non è per nulla scontato che la causa fossero i tuoi difetti. Quel racconto, che è dentro di te, in fondo è solo una storia, potrebbe non dirti la verità. Ma sei tanto abituato a prestarvi fede da non accorgertene. E non fai che ascoltarlo. Lo senti. Ti guida dall’interno.
Ecco perché chi ha una cattiva autostima evita di mettersi in gioco, nel lavoro quanto nelle relazioni. Oppure lo fa con l’atteggiamento intimidito dello sconfitto. Non si sente all’altezza, è certo che sia inevitabile accontentarsi di ciò che ha avuto in sorte e rassegnarsi al peggio.
E poi ci sono gli spavaldi, i dominanti, sempre al centro dell’attenzione. Anche questo, strano a dirsi, può essere un modo di reagire a un racconto di sé poco lusinghiero. Spesso, in effetti, chi si vede pieno di difetti cerca di sembrare perfetto. Chi teme che gli altri lo giudichino diventa ipercritico e rifiutante. Chi si percepisce immeritevole di considerazione fa di tutto per apparire.
L’atteggiamento superbo e competitivo, il desiderio di rivalsa, la fame di apprezzamenti che attribuiamo alla buona autostima possono essere il tentativo di silenziare tremende “storie” sul proprio conto.
E chi, invece, si stima davvero?
Non agisce con prepotenza né si sottomette, perché ha ben chiari quali siano i suoi diritti e bisogni ma sa che non è il solo ad averne. Non è bulimico di successo: se lo cerca è per realizzare il proprio potenziale e non per suscitare invidia. Non sbandiera i trionfi, non nasconde i fallimenti. Gradisce l’approvazione ma le sue azioni non vi si fondano. Sa cambiare idea, ma quando è convinto di una scelta o di un’opinione, non le modifica in funzione del volere altrui. Non conosci molte persone di questo tipo? L’autostima autentica è rara.
Ma, quando le incontri, puoi riconoscerle dalla serenità che le muove. E dal comportamento, dal quale traspare una determinazione mai ostentata e un appagamento che non è alimentato dai beni materiali posseduti né dalla posizione sociale ricoperta.
Parafrasando l’antico filosofo cinese Confucio, possiamo riassumere la differenza fra chi possiede un’autentica buona autostima e chi, invece, ne maschera una cattiva con la falsa sicurezza di sé: il primo è calmo senza essere arrogante. Il secondo è arrogante senza essere calmo.
I quattro pilastri della bassa autostima
Forse ti sorprenderà, ma chi ha una buona autostima non passa il tempo ad apprezzare il fatto di sentirsi di valore. Semplicemente, non pensa a sé in tali termini. Il concetto stesso di “valore” è fuori dall’orizzonte mentale di queste persone. Non è in discussione.
Ciò non vuol dire che esse manchino della capacità di fare autocritica. Sanno riconoscere gli errori, ma come non reputano i successi un mezzo indispensabile per sentirsi degni, così non lasciano che i fallimenti li privino del rispetto che nutrono per se stessi. Ecco l’atteggiamento alla base dell’alta autostima.
4 abitudini che abbassano l’autostima
Chi ha una buona autostima, di certo, è agevolato da un “racconto” confortante. Vista la qualità del contenuto, può disinteressarsene senza troppo sforzo. In caso contrario, la questione è diversa. Che fare, allora? Occorre smettere di dargli credito, d’ascoltarlo. Obiettivo che potrai raggiungere abbandonando queste quattro abitudini.
1. Giudicare
Ragionare per categorie significa “incasellare” esperienze, situazioni, persone, te compreso, in un modo che non presuppone vie di mezzo, ma solo il binomio tutto-o-nulla: bello/brutto, adeguato/inadeguato, degno/indegno. Una tendenza, questa, alla quale è difficile sottrarsi perché, in apparenza, funzionale. Ma è solo un’illusione. Categorizzando, della realtà non resta altro che una semplificazione. Un dipinto, in origine composto di miliardi di sfumature di colore, ridotto a un abbozzo in bianco e nero.
Qualsiasi giudizio, positivo o negativo, si fonda sull’impiego di categorie. “Sono spregevole”, per esempio, è un affermazione possibile solo adoperando il binomio ammirevole/spregevole. Sei sicuro che la complessità che ti caratterizza possa essere ridotta a tal punto? In effetti, basterebbe che tu avessi compiuto un atto lodevole, che possedessi anche solo un lato apprezzabile, e già quell’aggettivo diventerebbe inappropriato, insufficiente a descriverti.
Regole rigide e principi inamovibili sono alla base dell’atteggiamento giudicante. Per chi è inflessibile esiste un giusto modo di essere e di fare, che non ammette eccezioni. Ma così, ogni insuccesso diventa una dimostrazione di fallimento, ogni rifiuto un attestato d’inadeguatezza. Come puoi sentirti a tuo agio e fare pace con te stesso, agendo con una tale spada di Damocle sulla testa?
2. Paragonarsi
Abbiamo bisogno di sentirci alla pari di chi ci circonda. Per questo ci confrontiamo osservando il comportamento altrui. Ed entro certi limiti, è bene farlo. Uno studente universitario, notando quanto impegno mettono i compagni di corso nella preparazione degli esami, può accorgersi che non si sta applicando a sufficienza. Un genitore, parlando con gli altri papà e mamme, può scoprire che il suo metodo educativo non è il più adatto.
Tuttavia l’abitudine al paragone, se ininterrotta e “compulsiva”, non può che trasformarsi in uno strumento di autopunizione. Nel migliore dei casi, sorretti dal presupposto di essere i migliori, la vita diventa una lotta da combattere, una gara da vincere.
Se, poi, ci si paragona mossi dalla certezza di essere inadeguati, il prezzo da pagare è perfino maggiore. Il senso d’inferiorità non può che peggiorare ricercando, selezionando solo le informazioni che confermano l’idea di partenza: è quello che fa, per esempio, la ragazza insoddisfatta del suo aspetto fisico che si confronta solo con le modelle delle riviste. O una, convinta di essere meno intelligente delle amiche, che riconosce e ammira i loro successi mentre minimizza i propri.
3. Volere sempre di più
Sotto la spinta della volontà di emergere, ai tempi dell’università preparavi gli esami studiando ben oltre lo stretto indispensabile. In seguito, non ti sei fermato al primo impiego, cercando un’occupazione meglio retribuita, più stimolante. L’insoddisfazione è un potente motore di crescita.
Ma può diventare una malattia. Rimuginare di continuo su ambizioni e traguardi può portarti a deprezzare quanto di buono hai. Che, così, non sembra mai abbastanza. Confondendo l’avere con l’essere e il successo con il valore, ti persuadi che la tua cattiva autostima dipenda dal fatto che non hai ancora raggiunto i giusti obiettivi.
Ma anche arrivando in alto, se lo fai guardando solo a ciò che non hai, pace e appagamento avranno vita breve. Presto, la solita vecchia insoddisfazione si ripresenterà. E ti farà credere di non avere ancora dimostrato abbastanza per poterti ritenere meritevole. Che esista un obiettivo che, una volta raggiunto, ti permetterà di guardare a te stesso con benevolenza e ammirazione.
4. Ricercare approvazione
Trascorriamo parte del nostro tempo a indovinare, immaginare la volontà e le aspettative altrui, a curarci di come suscitare la stima di chi amiamo. In fondo, cerchiamo consenso fin da piccoli. Non è per questo che, speranzosi di ricevere l’elogio dalla mamma e dal papà, mostravamo loro i disegni fatti a scuola?
Amici, parenti, colleghi di lavoro, li conosci bene. Sai, o pensi di sapere, ciò che valutano giusto e sbagliato, di conoscere i valori che reputano importanti. A chi non fa piacere essere gratificato? Così ora, forse, agisci più per ricevere lodi che per ottenere quello che, per te, sarebbe davvero prezioso. A tal punto che ti sembra di esserti scordato chi sei.
Nel continuo tentativo di corrispondere alle aspettative di chi ha il potere di innalzarti o abbatterti con una parola, o di somigliare a chi ha successo, ignori i tuoi punti di riferimento: gli ideali genuini, le passioni, i modi d’essere, ciò che potrebbe appagarti, rasserenarti, renderti felice. Ma più te ne allontani, meno senti pace: è inevitabile, stai vivendo la vita di qualcun altro.
A cura di Gabriele Calderone, psicologo psicoterapeuta. Riceve su appuntamento nei suoi studi di Parma e Reggio Emilia. Info 389 0468477 – 340 9925256.