La mia vita è “MAI UNA GIOIA”: che problema c’è?

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

C’è sempre qualcosa che non va, un difetto, una probabile fregatura, un “sí, ma…”. Gli eterni “mai una gioia” sono tra noi, e, qualche volta, siamo noi. Può capitare. Ma se l’insoddisfazione diventa la regola, rovina l’esistenza di chi la prova e di chi sta vicino all’incontentabile.

Cosa si intende con “maiunagioia” Si intende la sconsolata consapevolezza che non si può star semplicemente sereni e che ci sarà sempre qualcosa che, in un modo nell’altro ti peggiorerà la giornata. Insomma….eterni insoddisfatti! Che la vita sia piena di “maiunagioia”, non lo mettiamo in dubbio, anzi. E che a volte la vita sembri che si accanisca su di noi, pure. Ma dobbiamo stare attenti. Perché molta differenza la fa come noi ci approcciamo a queste, benedette, “maiunagioia” .

E dobbiamo aggiungere che “più ne troviamo, più ne troveremo”: il cervello è fatto per concentrare i filtri dell’attenzione su quello su cui pensa maggiormente. Quindi, più daremo attenzione a quello che ci toglie le gioie o alle gioie assenti, più il nostro cervello ci farà interpretare la realtà come priva di gioie.

Le nostre “mai una gioia” nascono dalla frustrazione di bisogni e desideri irrealizzati

È un senso di mancanza e, in sostanza, l’assenza di piacere nella vita. Le sue diverse sfumature si collegano ai bisogni dell’uomo animale sociale: non sentirsi importante e amato, non avere una vita stimolante, non sentirsi realizzati, non soddisfare le proprie necessità, anche solo l’acquisto di una borsa griffata o l’uscire con gli amici

Ma insoddisfatti si nasce o si diventa?

Più diamo attenzione alle nostre maiunagioie, più daremo loro potere. Quante piccole gioie ignoriamo, perché presi da eventi che non avremmo voluto vivere? E la non attenzione a queste piccole gioie, a quali altre GRANDI gioie non ci ha portato, perché eravamo presi maggiormente a scrivere hashtag maiunagioia dove la gioie sono fuori dalla nostra vita che rimanere nella nostra vita a coltivar i semi delle nostre gioie.

Spesso, l’insoddisfazione deriva da un certo tipo d’educazione: ci sono genitori estremamente rigidi, performanti, che danno pochi permessi e molti divieti e che nel bambino si traducono in richieste da soddisfare per sentirsi amato. Ma la stessa insoddisfazione può essere sperimentata da chi cresce in ambienti poco stimolanti o da a chi vive in ambiti scolastici, di lavoro, sportivi, di vicinato troppo competitivi.

Infine, si può essere dotati di una personalità caratterizzata da scarsa capacità di trovare piacere in qualsiasi attività e di saper soddisfare i propri bisogni. In ogni caso, l’insoddisfazione nasce dal conflitto emotivo tra ciò che vorremmo e ciò che invece pensiamo di avere

Se anche tu vuoi tutto e subito

Ma anche il contesto sociale in cui attualmente viviamo può essere una continua fonte di malcontento. «Web e tv ci bombardano di giovani che diventano ricchi con poco, dj e calciatori milionari, gente famosa mentre dall’altra parte c’è crisi, disoccupazione e, quando va bene, un lavoro e uno stipendio normali. Siamo in un’epoca dove tutto è possibile e raggiungibile con un click, ma di fatto solo pochi realizzano i loro sogni. Il contrasto tra ipotetiche possibilità e una realtà che sembra anonima può generare profondo senso di frustrazione».

Emerge così una delle caratteristiche principali della scontentezza: L’incapacità di provare piacere per ciò che abbiamo conquistato e l’attenzione costantemente puntata su ciò che non abbiamo. E questo perenne senso di mancanza può trasformare la delusione in rabbia, anche verso chi non c’entra o in invidia. Dietro alla quale c’è la sensazione di vuoto, di qualcosa che, siccome manca a noi, non dovrebbe essere posseduta nemmeno da un altro.

È anche un meccanismo di difesa: per non sentire il vuoto, si passa all’attacco come compensazione. Lo stesso succede con chi, scontento per i propri obiettivi mancati, denigra altri che li hanno raggiunti: Si proietta così all’esterno un sentimento negativo verso se stessi, sempre nel tentativo di difendersene.

I rischi che corri

L’insoddisfazione può essere uno stimolo al cambiamento. Perché è il campanello d’allarme che qualcosa non va, che stiamo seguendo una strada (professionale o personale) non adeguata o che siamo coinvolti in una relazione disfunzionale. Se inascoltato, invece, il malessere può degenerare in somatizzazioni: stanchezza, gastrite, difese immunitarie deboli (raffreddori continui…), ansia, paure improvvise (per esempio di prendere il treno che porta in ufficio).

E una sensazione di “buco” emotivo, spesso colmato con comportamenti compulsivi: shopping sfrenato, uso e abuso di farmaci, di sostanze psicoattive (fumo, alcol, sigarette). Il rischio più grave è la depressione, quando la persona non prova più alcun piacere in ciò che ha e che fa.

Il tuo percorso di consapevolezza

Per combattere l’insoddisfazione occorre riflettere sul proprio stato emotivo e sul livello di autostima. Imparare ad apprezzare ciò che si ha “allenandosi” al piacere. L’emozione legata alla frustrazione è potente, e porta a concentrarsi sulle cose negative, non su quelle positive. In una giornata di lavoro magari raggiungiamo dieci priorità, ma se una telefonata va storta è a quest’ultima che continueremo a pensare prima di addormentarci, con l’insoddisfazione che ne consegue. La consapevolezza sul proprio stato emotivo è un cambio di prospettiva che, anche se non elimina la frustrazione, permette di bilanciarla.

Ogni giorno allenati alla “gioia”

Viviamo in un’epoca di straordinario benessere, ma, paradossalmente, ciò ci ha reso meno soddisfatti di quando avevamo meno. Credo dipenda dalla tendenza a fissare obiettivi molto distanti, teorici, relativi “voglio diventare ricco e di successo” sui quali abbiamo poco controllo, mentre perdiamo di vista la quotidianità.

Unicamente il “qui e ora” della meditazione di stampo buddista può creare un alto grado di soddisfazione. Le ricerche più recenti indicano che solo il dieci per cento dell’appagamento personale dipende da ciò che accade nella vita: il resto dipende da noi. Il soddisfatto è colui che sa gustare la tazzina di caffè fino all’ultima goccia, invece di ingoiarla senza pensarci e sentire subito il bisogno di berne un’altra».

Cambia punto di vista

Uno strumento che può aiutarci a mettere l’insoddisfazione nella giusta prospettiva è l’ìkigai, parola giapponese che significa “la ragione per cui ti alzi ogni mattina”. La vita non è che il risultato della somma dei singoli giorni. Nella quotidianità si può sempre trovare una ragione: per fare un sorriso a un vicino di casa, per aiutare una persona cara, per occuparmi di mio figlio, per portare a termine un lavoro incominciato ieri, per provare una nuova ricetta di cucina, per uscire a bere una birra con gli amici… ».

Recuperiamo anche la differenza tra “credenze” e “valori”. Spesso seguiamo criteri che non sono del tutto nostri, per cui facciamo delle scelte di vita, studio, professione che non corrispondono a ciò che avremmo voluto o abbiamo voglia veramente di fare. Ovvio che la soddisfazione diventa difficile da raggiungere, e ciò accade anche a persone di apparente successo.

Quest’ultimo non è un valore assoluto, ma spesso una credenza: una persona di successo, nel senso di soddisfatta della sua vita, può essere anche una mamma, una casalinga, un’impiegata e non necessariamente una pop star o una top manager, se poi sul piano personale è afflitta da solitudine o disperazione.

Dai il meglio in ciò che fai

Invece di vivere all’insegna del puntare al “massimo col minimo sforzo”, recuperiamo il valore dell’impegno. Ciò che fa stare meglio – secondo molti studi – è il fare bene le cose, anche le più banali, come pulire la casa: ciò che conta è la consapevolezza che mettiamo nei gesti.

Sapere di aver eseguito bene il proprio lavoro, al di là della sua importanza o dei riconoscimenti esterni, ci dà soddisfazione perché ci fa sentire “performanti”. E poi, la soddisfazione è un’abitudine, che va coltivata. Non basta raggiungere un obiettivo o possedere una cosa per sentirsi appagati, anzi una volta ottenuti, scatta un nuovo bisogno. Meglio riflettere su ciò che abbiamo, accorgerci di chi ci sta intorno, apprezzare i piccoli e grandi gesti degli altri.

5 passi verso la soddisfazione

1. Comprendi i tuoi bisogni reali. Quando senti una mancanza, chiediti se hai davvero bisogno di quella cosa o se è solo un desiderio. In quest’ultimo caso, ricordati che i desideri possono essere infiniti, ma solo alcuni sono realizzabili. Gli altris ono sogni. Corrergli dietro è solo una fonte di scontentezza.

2. Guarda cosa hai realizzato. Se ti concentri sul percorso compiuto e sui cambiamenti fatti, ti misuri e dai un voto di soddisfazione) sulla base di dati reali, e non sulla base di teorici traguardi, magari troppo alti e nemmeno dettati da te ma indotti dall’esterno.

3. Evita il confronto. Paragonarsi agli altri induce a notare soprattutto le nostre mancanze. Cambia prospettiva e punta invece l’attenzione su ciò che hai.

4. Concentrati su ciò che è essenziale. Per avere una vita appagante è importante imparare a riconoscere ciò che è superfluo, dando valore alle cose semplici ed essenziali. Un’operazione che porta ad avere una vita meno stancante e quindi più appagante

5. Sii consapevovole delle tue possibilità. Essere coscienti dei propri punti di forza (e dei priopri difetti) permette di sviluppare uno spirito positivo e un senso di gratitudine per quello che si riceve dalla vita.

…e senza sforzo, emergeranno le tue gioie

Se guardi dentro di te senza un parere e senza giudizio, allora i talenti che possiedi possono venire spontaneamente alla luce. Affinché una persona li possa “produrre”, occorre che si distolga dalle qualità degli altri, dalle ambizioni degli altri, dal voler essere come gli altri.  Esiste una frase magica che dobbiamo ricordare sempre per ottenere la fiducia in noi stessi:  “Non devo cambiare nulla di ciò che scopro dentro di me e non devo mai cercare di cambiare il mio carattere.

A cura di Ana Maria Sepe, psicoanalista
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