
La verità, però, è molto diversa. La sofferenza non fortifica: lascia ferite. Non ci rende più coraggiosi, più saggi o più resilienti. Ci lascia, piuttosto, con cicatrici invisibili che condizionano la nostra mente e il nostro corpo.
Chi ha attraversato traumi, abbandoni, mancanze affettive o violenze, non è “diventato forte grazie al dolore”: è sopravvissuto. Ma sopravvivere non significa vivere, così come resistere non significa essere liberi.
Le ferite non elaborate non costruiscono risorse: costruiscono difese. E queste difese, se non comprese, diventano gabbie interiori che ci fanno ripetere copioni di sofferenza per tutta la vita.
La sofferenza come frattura, non come palestra
Quando un bambino vive in un ambiente ostile, povero di contenimento emotivo o segnato da incoerenze affettive, non sviluppa “muscoli interiori”: sviluppa ferite. Il dolore, in assenza di adulti capaci di accogliere e contenere, non diventa esperienza trasformativa ma angoscia pura.
Il piccolo non ha ancora gli strumenti cognitivi ed emotivi per elaborare ciò che sente. Senza una figura che lo aiuti a dare nome e significato a quelle emozioni, resta sommerso da un mondo interiore troppo grande, troppo caotico. Cresce così con l’idea che le sue emozioni siano pericolose, ingombranti, sbagliate.
Da adulti, il risultato è evidente: non diventiamo forti, diventiamo reattivi. Non diventiamo liberi, ma vincolati a meccanismi di difesa che ci imprigionano. Continuiamo a scegliere partner che ci feriscono, a lavorare senza sosta per anestetizzare il vuoto, a punirci con il cibo o con il silenzio. La sofferenza non è mai stata una maestra: è stata una frattura. E nelle fratture non cresce forza, ma paura.
La prospettiva psicoanalitica: ferite non simbolizzate
La psicoanalisi ci aiuta a comprendere un punto fondamentale: ciò che non viene simbolizzato, cioè trasformato in pensiero ed esperienza condivisa, resta come corpo estraneo nell’inconscio.
Bion descriveva il compito del genitore come quello di “contenere” le emozioni del bambino, digerire per lui le angosce e restituirle in forma trasformata. Quando questo contenimento manca, il dolore non diventa apprendimento emotivo: resta grezzo, indigerito, pronto a riaffiorare nelle forme più diverse.
Queste ferite non simbolizzate non diventano risorse interiori: diventano copioni inconsci che guidano le nostre scelte senza che ce ne accorgiamo. Sono come binari sotterranei su cui corrono le nostre relazioni, il lavoro, persino il modo in cui ci trattiamo.
Cercare approvazione in ogni relazione
Chi non ha avuto da bambino uno sguardo che lo riconoscesse, da adulto vive con la sensazione di dover dimostrare continuamente il proprio valore. Ogni relazione diventa una continua verifica: “Ti piaccio? Sono all’altezza? Posso restare?”. Non c’è spazio per l’autenticità, perché l’obiettivo nascosto è conquistare approvazione. È un bisogno antico, il riflesso del bambino che chiedeva conferma e non la riceveva.
Confondere l’amore con la sopravvivenza
Quando crescere ha significato adattarsi a un ambiente instabile o freddo, l’amore viene interiorizzato come qualcosa che non nutre, ma che garantisce solo la sopravvivenza emotiva. Così, da adulti, possiamo scambiare per amore ciò che in realtà è dipendenza, paura dell’abbandono o attaccamento doloroso. Restiamo legati a rapporti che ci consumano, convinti che quello sia “amore vero”, quando in realtà è il riflesso della lotta infantile per non restare soli.
Punire se stessi per non sentirsi mai abbastanza
Un bambino non amato tende a pensare: “Se non ricevo affetto, è perché io non valgo”. Da adulti, questa convinzione si trasforma in autocritica spietata, perfezionismo, o comportamenti di autopunizione. Ci colpevolizziamo per ogni errore, ci neghiamo la gioia, ci trattiamo con durezza. È come se una parte di noi credesse di meritare il dolore, perpetuando la logica interiorizzata dell’infanzia.
In tutti questi casi, la sofferenza non ha reso forti: ha creato automatismi che si ripetono. Sono tentativi inconsci di dare senso a ciò che un tempo non poteva essere contenuto né elaborato.
Il bambino interiore che non ha ricevuto contenimento continua a bussare. E lo fa in modi che spesso scambiamo per “carattere” o “destino”: ansia, ipercontrollo, compulsioni, relazioni tossiche.
La prospettiva neuroscientifica: il corpo registra il trauma
Le neuroscienze oggi confermano con precisione ciò che la psicoanalisi ha intuito: il dolore emotivo non è un’idea astratta, ma lascia impronte biologiche.
- Amigdala: resta iperattiva, come una sirena che continua a segnalare pericolo anche quando non c’è. Questo porta a vivere con una costante sensazione di minaccia.
- Sistema HPA (ipotalamo–ipofisi–surrene): dovrebbe funzionare come un interruttore che si accende e si spegne in base allo stress. Nei traumi ripetuti, invece, si disregola: a volte produce troppo cortisolo, a volte troppo poco, perdendo la sua capacità di modulare la risposta.
- Ippocampo: fatica a distinguere tra passato e presente. Così, vecchi dolori riemergono come se stessero accadendo di nuovo.
- Corteccia prefrontale: perde la capacità di regolare le risposte emotive. Ci troviamo a reagire d’impulso, senza quella distanza interiore che permette la scelta consapevole.
Questo non ci rende forti. Ci logora, ci priva di equilibrio, ci inchioda in una modalità di sopravvivenza che prosciuga le energie vitali.
Le strategie di sopravvivenza: difese che diventano gabbie
Chi attraversa il dolore senza contenimento non esce “rafforzato”: esce armato. Le strategie che sviluppiamo da piccoli non sono risorse, sono compromessi. Servono a sopravvivere in un contesto ostile, ma nell’età adulta diventano gabbie invisibili.
- L’ipercontrollo: illusione che solo tenendo tutto sotto controllo possiamo evitare nuove ferite.
- Il compiacere: annullarsi pur di non perdere l’amore.
- L’auto-punizione: usare il corpo (con cibo, silenzi o fatica eccessiva) come campo di battaglia.
- Il ritiro: evitare ogni relazione profonda per non rischiare di soffrire ancora.
Non sono forza: sono corazze. E vivere dietro una corazza non è vivere, è sopravvivere.
Perché il mito della forza resiste: la retorica della resilienza
Se la sofferenza non fortifica, perché la società continua a dircelo? Perché abbiamo bisogno di dare un senso al dolore. Dire a qualcuno che “ne uscirà più forte” consola più che riconoscere la verità cruda: il dolore lascia ferite.
La cultura della “resilienza a tutti i costi” trasforma le vittime in eroi, perché è più facile ammirarle che occuparsi delle loro cicatrici. Ma questa retorica è pericolosa: spinge a minimizzare il trauma, a colpevolizzare chi non riesce a “diventare più forte”, a considerare debole chi resta fragile. La vera resilienza non nasce dalla sofferenza in sé, ma dalla possibilità di trasformarla. Non dal trauma, ma dalla cura.
L’educazione emotiva: un atto riparativo
Qui entra in gioco l’educazione emotiva. Se il dolore lascia ferite, è l’educazione emotiva che insegna a curarle.Non si tratta di teorie astratte, ma di pratiche quotidiane che permettono di fare ciò che da bambini non abbiamo potuto:
- Riconoscere le emozioni: imparare a sentire nel corpo ciò che accade.
- Nominare le emozioni: dare un linguaggio al vissuto interiore.
- Regolarle senza reprimerle: trovare modi sani per attraversare rabbia, paura, tristezza.
- Trasformarle in risorse: scoprire che ogni emozione, se accolta, porta con sé un messaggio di vita.
Educarsi emotivamente significa donarsi quel contenimento che ci è mancato. Significa diventare adulti capaci di prendersi cura del proprio bambino interiore.
La vera forza: la guarigione
La forza non nasce dal dolore, ma dalla guarigione. Non dall’essere stati spezzati, ma dall’aver trovato il coraggio di ricomporre i frammenti.
Il dolore non educa: interrompe.
La sofferenza non fortifica: spezza.
Ma la guarigione, sì, quella trasforma.
Il vero atto di forza è scegliere di guardare dentro le ferite, invece di negarle. È prendersi la responsabilità di imparare a contenere ciò che un tempo non poteva essere contenuto. È uscire dalla sopravvivenza e tornare a vivere.
Un invito alla libertà interiore
Se ti hanno insegnato che “il dolore ti renderà più forte”, sappi che non è così. Non è il dolore ad averti fortificato: sono le difese che hai costruito per sopravvivere. Ma quelle difese non bastano più: ora ti tolgono aria, ti impediscono di vivere pienamente.
La vera forza non è resistere, ma scegliere. Non è sopravvivere, ma fiorire. Non è trattenere le emozioni, ma imparare a trasformarle.
Ed è per questo che ho scritto il mio nuovo libro: “Lascia che la felicità accada – Lezioni di educazione emotiva per vivere e viversi meglio” (Rizzoli, in uscita il 28 ottobre 2025). Perché la felicità non è il premio dopo la sofferenza, ma la possibilità che nasce quando smettiamo di confondere il dolore con la forza e impariamo a prenderci cura delle nostre ferite. Il libro è già disponibile a questo link su Amazon per il preorder
E se ti va, seguimi sul mio profilo Instagram: @anamaria.sepe.
Ti aspetto lì per continuare il viaggio