Lasciare andare è un atto d’amore verso se stessi

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

C’è qualcosa di estremamente potente e silenzioso nel momento in cui decidiamo di lasciar andare. Non è solo una scelta, non è solo una rinuncia, e non è mai — mai — un fallimento. Lasciare andare è un gesto intimo, un sussurro che rivolgiamo alla parte più trascurata di noi: “Ti ho visto. Ho sentito quanto hai sofferto. E adesso basta.”

Ma quanti di noi riescono davvero a farlo? Quanti hanno imparato, sin da piccoli, che si può lasciar andare ciò che ferisce… senza sentirsi in colpa? Lasciare andare è difficile, perché il dolore ci è spesso familiare. È cresciuto con noi, ha preso il posto dell’amore mancante, si è camuffato da sicurezza, da abitudine, da necessità. E così restiamo attaccati a legami che ci tolgono luce, a persone che non ci vedono, a idee su noi stessi che ci riducono.

Ci aggrappiamo perché abbiamo imparato che l’amore si conquista, che la presenza si merita, che se qualcuno ci ferisce, dobbiamo impegnarci di più. Non ci hanno insegnato che si può scegliere noi stessi. Non ci hanno mai detto che la pace vale più della coerenza, e la libertà interiore più della lealtà cieca a ciò che ci consuma. Lasciare andare, allora, non è debolezza. È l’inizio di una guarigione. È l’atto d’amore che forse nessuno ha mai compiuto per noi: salvarci.

Quando tratteniamo ciò che ci ferisce

Tutti, prima o poi, ci siamo trovati in quella terra di mezzo: non stiamo più bene, ma non sappiamo ancora lasciar andare. È uno spazio psicologico sospeso tra il bisogno di affetto e la paura del vuoto. Eppure, quello che trattiene non è l’amore, ma l’illusione di poterlo ancora ricevere.

Restiamo legati a una persona che non ci rispetta, a un ruolo che ci schiaccia, a un passato che ci tormenta… perché dentro di noi c’è un bambino che spera ancora. Spera che l’altro cambi. Spera che stavolta basti. Spera che, se resta abbastanza, qualcuno si accorgerà di quanto vale. Questa speranza non è un difetto. È una traccia dell’amore che non abbiamo ricevuto abbastanza. Il problema nasce quando quella speranza diventa una prigione. Quando pur di non perdere, perdiamo noi stessi.

Il bisogno nascosto dietro l’attaccamento

In psicoanalisi, non esiste comportamento privo di significato. Anche l’attaccamento disfunzionale ha una logica interna. La nostra psiche è organizzata per proteggerci, anche quando sembra farci del male. Spesso, trattenere relazioni tossiche è una strategia inconscia per non sentire l’abbandono originario.

Meglio una presenza che ferisce, che il vuoto assoluto. Meglio l’illusione del controllo, che la sensazione di impotenza. Meglio un dolore familiare, che un benessere sconosciuto. Nel trattenere c’è il tentativo di “riparare” qualcosa. Di rivivere il passato e, stavolta, cambiare il finale. Ma quel finale non cambia se non siamo noi a cambiare copione.

Lasciare andare significa questo: rinunciare a ripetere. Smettere di ripercorrere le stesse strade sperando in paesaggi diversi. Smettere di mendicare in luoghi dove il nostro valore non è mai stato riconosciuto.

Il cervello non ama cambiare (soprattutto quando è stato ferito)

A livello neurobiologico, lasciar andare è un vero e proprio trauma per il nostro cervello. Perché la stabilità — anche quando dolorosa — attiva circuiti di sicurezza. Il sistema limbico, che governa le emozioni e la memoria affettiva, associa il familiare al sicuro, anche se quel familiare ci toglie respiro. È per questo che il distacco attiva un’allerta: l’amigdala registra pericolo. La dopamina, legata alla ricompensa, scende. Il corpo sente la mancanza come una crisi d’astinenza.

Non è debolezza. È chimica. È lo stesso meccanismo che ci tiene agganciati a comportamenti compulsivi, a legami ossessivi, a ruoli autodistruttivi. Ma il cervello può anche riscriversi. La neuroplasticità lo dimostra: con nuove esperienze, possiamo creare nuovi significati, nuove connessioni, nuove vie per stare al mondo. E il primo passo è proprio lasciar andare.

Lasciare andare non è voltare pagina. È cambiare libro

Molti pensano che lasciar andare significhi semplicemente chiudere una porta. Ma chiudere non basta. Lasciar andare è un processo più profondo: significa guardare quella porta, riconoscere perché l’abbiamo varcata, quali ferite ci ha fatto, quali illusioni ci ha dato… e solo dopo, scegliere di non entrarci più.

È un movimento interno. Non ha a che fare con l’altro, ma con noi. Non serve che l’altro si scusi, che cambi, che capisca. Serve che noi ci vediamo. Serve che ci trattiamo con la stessa tenerezza con cui, da piccoli, avremmo voluto essere tenuti in braccio. Lasciar andare non è dimenticare. È ricordare senza dolore. È accettare che ciò che è accaduto non ci definisce. Che non serve più trattenere per sentirsi interi. Perché interi, possiamo esserlo anche da soli.

E se lasciando andare venissi dimenticato?

Una delle paure più profonde, quando si lascia andare, è proprio questa: che l’altro smetta di pensarci. Che quella persona che abbiamo amato con tutto noi stessi, non senta nemmeno la nostra assenza. Ma il punto è che non siamo venuti al mondo per essere ricordati da chi ci ha fatto male. Siamo venuti per ricordare a noi stessi chi siamo, anche se per farlo dobbiamo andarcene.

Lasciar andare non significa scomparire. Significa smettere di bussare a porte che si sono chiuse molto prima di noi. Significa non attendere più un amore che, se fosse esistito davvero, non ci avrebbe fatto male così a lungo.

Lasciare andare è anche scegliere chi vogliamo essere

Ogni volta che lasciamo andare, scegliamo chi diventare. Smettiamo di essere la versione che si è adattata per non essere abbandonata. Smettiamo di essere quella che ha detto sempre sì per paura di perdere l’amore. Diventiamo adulti. Consapevoli. Liberi. Non immuni dal dolore, ma finalmente capaci di accoglierlo senza rinnegarci. Perché quando ti ami abbastanza, smetti di farti male per amore.

I segnali che stai imparando a lasciar andare

Lasciare andare non accade tutto d’un tratto. È un processo silenzioso, spesso invisibile agli occhi degli altri, ma profondamente rivoluzionario dentro di te. Non si manifesta con grandi gesti, ma con piccoli cambiamenti nel modo in cui ti pensi, ti tratti, scegli. È come se, piano piano, iniziassi a tornare a casa. Ecco alcuni segnali che indicano che stai smettendo di trattenere ciò che ti consuma… e stai finalmente scegliendo te.

Non cerchi più di convincere l’altro a restare

C’è stato un tempo in cui bastava un suo silenzio per farti dubitare di te. In cui ogni allontanamento veniva vissuto come una tua colpa, come se il tuo valore dipendesse dalla sua presenza. E allora provavi a spiegare, giustificare, dimostrare. Facevi l’impossibile per convincere l’altro a restare, anche quando il prezzo era rinunciare a parti di te. Ma poi accade qualcosa. Inizi a sentire che convincere non è amore, è dipendenza. E capisci che chi ti ama davvero non ha bisogno di essere trattenuto. Così, lentamente, smetti di inseguire. Smetti di scrivere lunghi messaggi per farti capire. Smetti di cercare spazio in cuori chiusi. E impari a scegliere te, anche se l’altro se ne va.

Smetti di giustificare chi ti ha ferito

Quando vuoi bene a qualcuno, è facile trovare mille motivi per cui ti ha fatto del male. Forse è ferito. Forse ha paura. Forse non ha mai imparato ad amare. E può anche essere vero. Ma a un certo punto ti accorgi che spiegare non basta più. Che comprendere non cambia le conseguenze sul tuo cuore. Smetti di dire “non lo fa apposta”, “ha avuto un’infanzia difficile”, “è il suo modo di essere”. E inizi a chiederti: “Ma io, come mi sento in tutto questo?” Perché comprendere può essere un gesto d’amore, ma restare in un luogo dove il tuo dolore non viene riconosciuto non è compassione: è autonegligenza. E tu meriti di più che una spiegazione. Meriti rispetto.

Ti accorgi che la nostalgia non è amore

La mente è brava a ingannarti. Sa selezionare i ricordi più dolci, filtrare solo i momenti belli, amplificare ciò che hai avuto e cancellare ciò che ti ha fatto male. Ma il cuore, se lo ascolti davvero, sa la verità. Sa che quella nostalgia che senti non è amore, è mancanza. È il riflesso di un vuoto che esisteva già prima di quella relazione, di quel legame, di quella persona. Ti accorgi che ciò che ti manca non è l’altro, ma la versione di te che speravi di diventare accanto a lui. E allora smetti di romanticizzare il passato. Inizi a guardarlo per com’era davvero: a volte dolce, a volte crudele, ma soprattutto… non adatto a te.

Non rincorri più il lieto fine

Hai passato tanto tempo a immaginare che, se solo avessi fatto le cose diversamente, se solo l’altro avesse capito, se solo le circostanze fossero state favorevoli… tutto sarebbe finito bene. Ma quel “bene” era spesso una proiezione. Un finale perfetto che cercavi di scrivere per dare senso al dolore. Poi, però, inizi a comprendere che la vita vera non sempre ha lieti fini, ma ha evoluzioni. Che un finale può anche essere doloroso, eppure necessario. Che il lieto fine non arriva quando l’altro cambia, ma quando tu cambi prospettiva. Quando smetti di vivere in attesa che qualcosa si aggiusti da fuori, e inizi a creare un nuovo inizio dentro di te.

Inizi a chiederti: “Cosa voglio io?”

Per molto tempo la tua attenzione è stata rivolta all’altro: “Cosa vuole da me?”, “Come posso renderlo felice?”, “Cosa devo fare per non perderlo?”. Ma ad un certo punto, quasi in punta di piedi, una domanda nuova si affaccia: “E io, cosa voglio?” Ed è una domanda che fa tremare, perché la risposta potrebbe scombinare tutto. Potrebbe significare allontanarti, cambiare direzione, perdere ciò che era conosciuto.

Ma è anche la domanda che ti salva. Perché quando inizi a farti questa domanda, stai dicendo al tuo mondo interno: “Tu conti. Tu esisti. Non sei più disposto a dimenticarti per amore di nessuno”. E da lì comincia tutto. Perché quando inizi a contare per te stesso, cambia il modo in cui ti lasci trattare. Cambia il modo in cui ami. Cambia il modo in cui vivi.

Il coraggio di tornare a casa

Lasciare andare è come tornare a casa dopo anni di assenza. Una casa interiore che forse avevamo dimenticato, abbandonato, lasciato vuota per seguire gli altri.

Quando finalmente smettiamo di trattenere ciò che ci fa male, non perdiamo nulla. Anzi, recuperiamo parti di noi che pensavamo perdute. Ritroviamo la voce, il corpo, il silenzio. Iniziamo a distinguere il rumore del bisogno dall’eco della verità. È in quel momento che tutto cambia: quando smetti di chiedere amore dove non c’è, e inizi a coltivarlo dove sei. Perché lasciar andare è un atto d’amore verso se stessi. E tu meriti quell’amore. Da sempre.

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