Le frasi che svelano l’impronta di una famiglia disfunzionale

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

Ci sono frasi che diciamo senza pensarci, come riflessi automatici. Le ripetiamo nel quotidiano, le usiamo per spiegare chi siamo, per gestire un conflitto, per farci piccoli o per sembrare forti. Eppure, molte di queste frasi non vengono da noi. Sono eredità. Tracce lasciate da chi ci ha cresciuti, da chi ci ha insegnato – anche senza volerlo – a proteggerci, adattarci, resistere.

Crescere in una famiglia disfunzionale non significa per forza avere subito abusi espliciti. A volte, la disfunzionalità è fatta di silenzi, di mancanze, di parole mai dette o di sguardi che evitano. È fatta di genitori anaffettivi, imprevedibili, troppo centrati su di sé o incapaci di contenere emotivamente un figlio. Ed è lì che nasce la distorsione: il bambino, per sopravvivere, si adatta. Ma quell’adattamento ha un prezzo.

Frasi tipiche della famiglia disfunzionale

Il linguaggio che usiamo da adulti è spesso la finestra più chiara su ciò che abbiamo imparato da piccoli. E alcune frasi, se ripetute spesso, rivelano proprio l’impronta profonda lasciata da un’infanzia emotivamente carente o caotica.

In questo articolo, esploriamo alcune di queste frasi: non per giudicare, ma per riconoscersi. Perché solo quando diamo un nome alle nostre ferite possiamo iniziare a guarirle.

1. “Non voglio dare fastidio”

Questa frase, apparentemente gentile e altruista, nasconde spesso una convinzione radicata: “La mia presenza è un problema”. È tipica di chi è cresciuto in un ambiente dove i bisogni non venivano accolti, dove ogni richiesta era vissuta come un eccesso, un capriccio, o addirittura una minaccia all’equilibrio familiare.

Nel tempo, il bambino impara a non chiedere. A non disturbare. A diventare invisibile per sopravvivere. Ma quell’invisibilità si trasforma in adulti che si scusano per esistere, che si trattengono anche quando hanno bisogno, che chiedono il minimo per paura di essere respinti.

È un linguaggio della rinuncia. E spesso, una rinuncia di sé.

2. “È colpa mia”

Chi è cresciuto in una famiglia disfunzionale spesso sviluppa una iper-responsabilità emotiva. Quando i genitori non sanno gestire le proprie emozioni, il bambino viene investito da rabbia, frustrazione o silenzi punitivi, senza spiegazioni. E allora si fa una sola domanda: “Cosa ho fatto di sbagliato?”

Per un bambino, è meno doloroso pensare di essere lui il problema piuttosto che ammettere che i suoi genitori non siano capaci di amarlo in modo sano. Così nasce il senso di colpa cronico. Un meccanismo di controllo: se è colpa mia, posso cambiare e far andare meglio le cose. Ma è un’illusione.

La frase “è colpa mia” detta anche quando non c’è colpa, è la voce di un bambino che sta ancora cercando di aggiustare qualcosa che non era suo compito aggiustare.

3. “Non è niente, va tutto bene”

Questa è la frase tipica di chi ha imparato a non ascoltare le proprie emozioni. In molte famiglie disfunzionali, le emozioni scomode (tristezza, rabbia, paura) non erano permesse. Venivano minimizzate, ridicolizzate o ignorate. Così il bambino impara che sentire è pericoloso, e soprattutto che esprimere ciò che sente non porta alcun beneficio. Anzi: esporsi emotivamente significa rischiare la derisione o l’abbandono.

Dire “non è niente” non è solo negare il proprio dolore: è rendersi estranei a se stessi. Significa aver interiorizzato che il proprio mondo emotivo non ha valore.

4. “Mi arrangio da solo”

Dietro questa frase si nasconde spesso un passato in cui nessuno ha insegnato cosa vuol dire fidarsi. In molte famiglie disfunzionali, chiedere aiuto non solo non era efficace, ma diventava un’occasione per essere giudicati deboli o inadeguati. Oppure, peggio ancora, l’aiuto arrivava solo a fronte di una prestazione: “ti aiuto se sei bravo”, “se te lo meriti”.

Il bambino cresce imparando che non può contare su nessuno, e quindi si costruisce un’identità da autosufficiente. Ma è una forza che non nasce dalla fiducia in sé, bensì dal timore della delusione. L’autonomia, in questi casi, è una corazza, non una conquista.

5. “Non voglio creare problemi”

Questa frase somiglia alla prima, ma ha una sfumatura diversa: è la paura di rompere un equilibrio instabile. È tipica dei figli di genitori con dinamiche conflittuali, alcolismo, depressione o fragilità psichiche. In questi contesti, ogni piccola scintilla poteva scatenare un’esplosione. Così il bambino si abitua a monitorare l’ambiente, a prevedere gli sbalzi d’umore degli adulti, a camminare in punta di piedi.

Dire “non voglio creare problemi” diventa un modo per tenere tutto sotto controllo. Ma dietro quel controllo c’è uno sforzo immenso e una tensione cronica. Una vita vissuta all’ombra del disastro.

6. “Non mi aspetto niente da nessuno”

Questa frase può sembrare lucida e matura. Ma spesso è la voce di una sfiducia radicale, nata da delusioni ripetute. Chi è cresciuto in una famiglia disfunzionale ha sperimentato l’incoerenza, la promessa non mantenuta, la parola data e poi ritirata. Ha imparato che aspettarsi qualcosa significa esporsi alla frustrazione.

Per difendersi, costruisce un cinismo apparente: “non mi aspetto niente e così non ci resto male”. Ma in realtà, la rinuncia all’aspettativa è una rinuncia all’intimità. All’idea che qualcuno possa davvero esserci in modo affidabile. È un dolore congelato, che si traveste da indipendenza.

Cosa rivelano davvero queste frasi?

Tutte queste frasi hanno un elemento in comune: sono tentativi di adattamento diventati identità. Il bambino, per proteggersi, si plasma. Impara a non disturbare, a non sentire, a non chiedere. Ma quegli schemi, se non vengono rivisti da adulti, diventano filtri con cui si guarda il mondo. Condizionano relazioni, scelte, reazioni emotive. E ci tengono prigionieri di un copione antico.

Perché è importante riconoscerle?

Perché le parole creano la realtà. Il linguaggio non è solo un mezzo per esprimere ciò che sentiamo: è ciò che sentiamo. È lo specchio delle credenze profonde, di quelle convinzioni che si sono impresse nel nostro cervello emotivo quando eravamo piccoli.

Dal punto di vista neuroscientifico, le esperienze infantili precoci modificano la struttura delle reti neurali. Il nostro sistema limbico – in particolare l’amigdala e l’ippocampo – registra le esperienze relazionali e costruisce modelli predittivi: se da piccolo il bisogno è stato ignorato, da adulto il cervello si aspetterà sempre rifiuto o indifferenza. E quel modello continuerà a guidare i nostri pensieri e il nostro linguaggio, anche se oggi il contesto è cambiato. La buona notizia? Possiamo cambiare. Ma il primo passo è accorgerci.

La strada verso il risveglio emotivo

Spesso ci rendiamo conto di questi automatismi solo quando entriamo in una relazione significativa, o quando iniziamo un percorso terapeutico. È lì che alcune frasi ci sorprendono. Ci ascoltiamo parlare e ci chiediamo: “Ma perché lo dico? Da dove viene questa convinzione?” In quel momento qualcosa si muove.

Iniziamo a intuire che quelle parole non sono davvero nostre. Che ci sono state cucite addosso, ma possiamo toglierle. Possiamo imparare a dire “ho bisogno”, “mi fa male”, “non è colpa mia”. Possiamo imparare a costruire un nuovo linguaggio interiore, uno che non sia fondato sulla difesa, ma sulla verità di ciò che sentiamo.

Non è facile. Perché spesso guarire significa tradire il copione familiare. Spezzare l’incantesimo. Riconoscere che chi ci ha cresciuti, magari in buona fede, non ci ha dato ciò di cui avevamo bisogno. Ma proprio in quella frattura può entrare la luce.

Guarire l’impronta, scegliere nuove parole

Crescere in una famiglia disfunzionale lascia un segno. Ma non è un destino. Le frasi che ripetiamo possono diventare finestre. Spiragli da cui iniziare a guardarci dentro con più dolcezza, con più verità. Non per condannarci, ma per comprenderci. Per ritracciare la mappa di ciò che abbiamo vissuto e iniziare, finalmente, a scegliere.

Scegliere come parlare a noi stessi. Scegliere quali parole meritano ancora spazio e quali no. Scegliere chi vogliamo diventare, al di là delle frasi che ci hanno insegnato. Perché ogni frase che ci ha ferito può diventare una porta verso una nuova narrazione. E ogni nuova narrazione può diventare una forma di cura.

Nel mio libro “Il mondo con i tuoi occhi” parlo proprio di questo: delle frasi interiorizzate, dei copioni familiari, dei costrutti che ci sembrano verità ma sono solo abitudini emotive. E di come, passo dopo passo, possiamo disimparare ciò che ci ha fatto male… per scrivere una nuova storia. Nostra, davvero. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon

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