Le pratiche bioenergetiche integrate ed il training psicoemozionale hanno in sé la caratteristica fondamentale di riuscire in maniera semplice a far emergere cosa è necessario fare o non fare per raggiungere il benessere.
Il corpo di ognuno di noi è diverso e diverse sono le chiavi che custodiamo segretamente in grado di aprire quelle serrature che danno accesso a quei “giardini dell’anima” che spesso tendiamo a trascurare nella convinzione che “il fare cose” sia l’imperativo categorico del vivere, dimenticando di soffermarsi, di ascoltare, di rallentare, di accogliere realmente il desiderio che ci anima.
Le pratiche che propongo nei miei seminari hanno il duplice obiettivo di andare da una parte alla ricerca delle proprie chiavi di lettura, di scovarle, identificarle e prenderle; dall’altra di andare a dirigersi verso quelle serrature che spesso rimangono in ombra, un po’ arrugginite dal tempo o semplicemente trascurate perché ritenute inutili, sciocche, infantili.
Si parte quindi dalla ricerca delle proprie chiavi.
Mi presento a me stesso:
immobili nella propria posizione più comoda, in piedi o seduti ad occhi chiusi, ognuno ascolta il proprio respiro, accogliendo l’imbarazzo, l’impazienza, la delusione per non riuscire a smettere di pensare, o la gioia di riscoprirsi invece in una veste diversa.
Il respiro fa da specchio a ciò che siamo in questo momento. Il rifiutarsi di accogliere l’immagine riflessa ci rimanda l’impossibilità di far pace con noi stessi per come siamo, sacrificati all’ideale di come dovremmo essere. E anche il non accettarsi diviene il pretesto per cominciare a farlo, ovvero per arrendersi alla difficoltà di far pace con se stessi e alle soggettive modalità dell’essere se stessi.
Le tensioni corporee e non, i blocchi, l’incapacità di stare ad occhi chiusi per controllare tutto ciò che accade all’esterno (impossibilitati a lasciarsi andare), la paura di ciò che il conduttore potrebbe pensare di noi, la rabbia di non essere capaci di fare per come avremmo immaginato, la delusione di non essere immersi in un giardino interiore poi così appetibile, sono tutti aspetti che caratterizzano le chiavi che siamo andati a spolverare. Sta a noi adesso afferrarle, nonostante il peso di una possibile delusione.
La prima chiave: prendo ciò che mi nutre.
In questa fase entra in gioco la scoperta del desiderio nascosto, il bisogno antico che spesso è stato ignorato relegandolo in un angolo. Si tratta di andare a rovistare negli archivi dei propri vissuti facendo emergere tutte quelle emozioni che hanno accompagnato la nostra storia.
Aprire quelle scatole dove un tempo abbiamo nascosto desideri che, per qualche motivo, ci hanno alla fine impauriti perché troppo carichi emotivamente o perché sentivamo come illeciti, o troppo egoistici rispetto alle richieste esterne.
Molti desideri vengono infatti sentiti come illegittimi perché qualcuno ha criticato le scelte che ritenevamo importanti fare e le abbiamo barattate con altre che però non appartenevano a noi ma agli altri con le loro aspettative. E la paura, emozione congelante, ci mette nella condizione di raccontarci che è molto più sicuro seguire il sentiero tracciato da altri, magari ritenuti più saggi, o capaci, che non il nostro istinto, il sentire, ecc.
Adesso, accompagnati dal respiro che pervade e nutre, nel nostro silenzio, abbiamo modo di risvegliare questo antico desiderio, accogliendo, se si è in grado, tutto il fiume emozionale che lo permea. Una volta accettata la sfida del guardare in faccia ciò che abbiamo per tanto tempo riposto e nascosto, è importante visualizzarlo davanti a noi ad occhi chiusi.
A questo punto, una volta che il desiderio si è definito, è possibile provare a tendere le braccia verso di esso e provare ad afferrarlo. Il gesto diviene il nostro modo di tendere verso ciò che desideriamo, ovvero verso la possibilità di provare piacere. Qui inizia il momento di auto interrogarsi su come ci si sente a slanciarsi, ad uscire dall’abitudine per provare a prendere quella parte di noi stessi che per tanto, troppo tempo abbiamo trascurato.
Sono in grado le nostre mani di afferrare? Come sento le braccia nel momento in cui cerco di portarle in avanti? Riesco ad accettare di entrare in contatto con il mio desiderio?
E una volta raggiunto, riesco a nutrirmi di qualcosa?
La seconda chiave: lasciare.
Lasciare significa accettare la sfida di togliersi il fardello pesante del passato dalle spalle e sfilarselo via come uno zaino. Per fare questo occorre, ad occhi chiusi e centrati sul respiro, provare a sentire attraverso la forza evocativa delle immagini la differenza ed il confine che separa noi dai nostri ricordi. Noi non siamo ciò che ci siamo raccontati di noi stessi e non siamo neppure i giudizi esterni sul nostro conto. Non siamo neppure le nostre convinzioni.
Provare a ridefinire la differenza fra noi e le nostre convinzioni limitanti accumulate nel tempo attraverso le varie esperienze diventa il passo necessario per poi procedere a scollarsi di dosso il peso che ci portiamo sulle spalle.
Successivamente procediamo camminando ed iniziamo a fare delle torsioni con il busto, in modo da consentire alle braccia e alle mani di imitare il gesto di abbandonare qualcosa, lasciandolo dietro alle nostre spalle.
Questo movimento è estremamente evocativo perché ha a che fare con il distaccarsi da ciò che per molto tempo ci ha caratterizzato. Dentro lo zaino che abbandoniamo possiamo trovare difese, rigidità, delusioni, mortificazioni, ecc. Non è detto che il processo del distacco sia così facile. Ecco perché è importante porsi nuovamente in fase di autoascolto e di auto-indagine in modo da far luce su tutti i nostri vissuti che in qualche modo inizieranno ad emergere. E sarà qui possibile rendersi conto di come sia difficile abbandonare quegli aspetti di noi che, seppur dolorosi e fastidiosi, ci hanno comunque difeso ed abituati, regalandoci l’illusione della sicurezza.
La terza chiave: togliere.
La ricerca e l’uso di questa chiave è la più difficile e complessa. Togliere significa fare come lo scultore, ovvero eliminare tutto ciò che è in eccesso e che impedisce di far emergere la nostra autenticità. Senza il processo di eliminazione delle scorie non possiamo far emergere il nostro capolavoro. In pratica si tratta di passare dalla potenza all’atto usando la metafora del seme.
Solo nel meccanismo di apertura la pianta può liberarsi e crescere. Il corpo può provare ad imitare questo processo passando gradualmente da posizioni rannicchiate ad altre di completa apertura, in modo da sentire come ci si senta ad esporsi, a liberarsi dalla corazza del proprio “autoripiegamento”.
Le braccia, le mani e le gambe possono essere, successivamente, scosse come se dovessero liberarsi dall’acqua depositata sulla pelle. In questa fase è importante visualizzare ciò che andiamo a togliere, ovvero quale parte di noi sentiamo come in autentiche, non nostre e come ci sentiamo in questo processo di lavorazione del sé. Qui è importante accogliere ciò che emerge dal lavoro emotivo e sentire come il respiro cambia, se cambia. Quali blocchi incontriamo? Avvertiamo rigidità?
Solo alla fine è possibile sperimentarsi nelle posture che sentiamo più nostre, più in sintonia con la nostra natura, provando a confrontarle con quelle che assumiamo nella vita di tutti i giorni, ossia con quelle che adottiamo nel lavoro, in famiglia o con gli amici.
E’ sperimentandosi nel confronto fra i diversi atteggiamenti corporei che possiamo sentire quali sono quelli che avvertiamo come nostri rispetto ad altri che abbiamo invece imparato ad usare per sopravvivere psicologicamente, come tenere bassa la testa, incurvarsi con le spalle, ecc. Tutto questo non è altro che un lavoro sulle nostre strutture difensive, un modo per riconoscere le giunture delle corazze caratteriali ed un tentativo per renderle più flessibili e maggiormente adattabili.
A cura di Andrea Guerrini, psicologo e pedagogista
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