L’indipendenza nella coppia ci fa comprendere che si può stare bene ed essere felici sia insieme che come singoli individui. In breve, l’indipendenza nella coppia ci consente di godere della vita e di dare il giusto valore al tempo trascorso con il partner. Un’indipendenza autentica è rappresentata dalla capacità di non dipendere da altre persone, e di non permettere ad altre persone di dipendere da noi, pur relazionandoci con loro in modo autentico ed empatico. L’errore che fanno molti è pensare all’indipendenza in termini assolutistici, associando l’idea dell’indipendenza quasi al distacco interpersonale.
In realtà, più che di una polarità composta da due estremi «dipendenza-indipendenza», allora, sarebbe più opportuno parlare di dipendenze sane e dipendenze patologiche, definendo patologiche le forme “non negoziabili” di dipendenza o le pretese, eccessive e illusorie, d’indipendenza. Nelle forme patologiche della dipendenza, l’altro è disperatamente cercato come regolatore unico degli stati del Sé, oppure, nella forma patologia dell’indipendenza, l’altro viene disperatamente evitato, perché visto come minaccia alla propria integrità.
“Dipendenza”, inoltre, non è sempre il termine giusto. Nelle unioni, Bowlby preferisce usare quello di “attaccamento”, sostenendo che non è vero, come affermano i sostenitori della pulsione secondaria, che “una volta che il bambino può provvedere a se stesso, dovrebbe diventare indipendente” e neppure “che ogni forte desiderio di una figura di attaccamento sia un segno di regressione” (Bowlby, 1979, 123).
Dipendenza e indipendenza sono dimensioni compatibili
Dipendenza e indipendenza sono, in realtà, dimensioni compatibili, a seconda delle varie fasi della vita ed anche, nella stessa fase, a seconda dei diversi momenti e delle esperienze che viviamo. L’ipotesi di un passaggio lineare dalla prima alla seconda non è realistica, mentre in questo continuum possiamo riconoscere i segni di una dipendenza adeguata anche in età adulta, ossia una dipendenza matura (Fairbairn, 1946), capacità di mitigare la solitudine (Klein, 1959);
ancora, la capacità di essere solo in presenza di un altro (Winnicott, 1958), base sicura (Bowlby, 1969), natura mutevole delle relazioni tra il Sé e i suoi oggetti-Sé (Kohut, 1984, 1987), capacità di abbandonarsi (Ghent, 1990), riconoscimento reciproco (Benjamin, 1988, 1995, 1998, 2002), mutualità (Aron, 1996), distinguendoli da quelli di una dipendenza sottomessa (Ghent, 1990), adesiva, sadica o masochista (Benjamin, 1988; Kaplan, 1991; Kernberg, 1992, 1995).
In questo senso, la fiducia negli altri e la fiducia in se stessi non solo sono compatibili, ma addirittura specularmente complementari ed acquisibili sin dalle prime fasi di vita del bambino, allorquando si specchierebbe negli occhi della madre, per riconoscersi in un’immagine intera. Ma se lo specchio è infranto, o, non saprei quale sia peggio, iper-riflettente, l’immagine ne sarà irrimediabilmente compromessa.
Allora la teoria dell’attaccamento, secondo Bowlby , è «un modo per concettualizzare la tendenza dell’essere umano a strutturare solidi legami affettivi con particolari persone, e ( provare) profondi turbamenti emotivi originati da perdite e separazioni involontarie». La relazione con gli altri si caratterizzerebbe, allora, per interazioni capaci di fornirci protezione e sostegno, la sensazione di poter fare riferimento alle persone più vicine, di esplorare l’ambiente in modo sicuro, di stabilire relazioni soddisfacenti con gli altri, che conduce allo sviluppo di un modello di sé stabile e positivo e ad una serie di strategie di regolazione affettiva in buona parte autonome.
Da questo si sviluppa quella personalità adulta, autonoma, ma anche capace di fidarsi, chiedere aiuto e appoggiarsi agli altri, quando necessario, ed anche capace di essere a disposizione per gli altri in un clima di “empatia”. La disponibilità delle figure di attaccamento rinforza la capacità di fare affidamento su figure sia esterne sia interne, ed è anche una base fondamentale per sviluppare le capacità di autoregolazione.
Secondo Winnicott e Kohut un’indipendenza completa non è possibile né auspicabile, tutti abbiamo bisogno di approvazione, empatia e ammirazione. La separazione tra il soggetto che si attacca e l’oggetto di attaccamento è solo apparente: le relazioni oggettuali sane consistono non tanto in una chiara separazione del sé dagli altri quanto in differenti forme di relazionalità che si arricchiscono a vicenda.
Sul rapporto tra stile di attaccamento e personalità dipendente sono state condotte varie ricerche tra cui quella di Ainsworth (1972) : la cosiddetta “personalità dipendente” viene di solito considerata il risultato di un attaccamento ansioso che tende ad autoperpetuarsi.
Osservano Liotti e Farina (2011, 28) che “i contesti relazionali traumatici influenzano lo sviluppo delle competenze interpersonali causando gravi difficoltà a riporre fiducia negli altri, oscillazioni fra ricerca di vicinanza protettiva e paura dell’intimità affettiva, e comportamenti inappropriati di controllo della relazione… le relazioni affettive divengono instabili a causa della drammaticità dello scambio emotivo, in maniera simile a quella tipicamente riscontrata nel disturbo borderline di personalità…. oppure sono affettivamente appiattite dal continuo sforzo di compiacere l’altro, verso il quale si sviluppa una patologica dipendenza, come si osserva nei pazienti con disturbo di personalità dipendente…”.
Comportamenti o atteggiamenti patologicamente dipendenti o contro-dipendenti, ostili, diventano così, paradossalmente, l’espressione del tentativo di fuggire da una relazione di attaccamento vissuta come troppo pericolosa e traumatica. La paura dell’abbandono e il tentativo di tenere in piedi una relazione per mezzo del continuo compiacimento dell’altro possano essere letti come tentativi di difendersi da primitivi sentimenti di impotenza e inermità legati alla precoce relazione traumatica con il genitore.
La compromissione dell’Empatia
L’empatia è un’abilità sociale di fondamentale importanza e rappresenta uno degli strumenti di base di una comunicazione interpersonale efficace e gratificante. Nelle relazioni interpersonali l’empatia è una delle principali porte d’accesso agli stati d’animo e in generale al mondo dell’altro.
L’empatia è la capacità di comprendere a pieno lo stato d’animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Il significato etimologico del termine è “sentire dentro“, ad esempio “mettersi nei panni dell’altro“, ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana ed animale. Nelle scienze umane, l’empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell’altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale.
In questo senso verrebbe compromesso il meccanismo dell’empatia (termine derivato dal greco ἐν, “in”, e –πάθεια, dalla radice παθ– del verbo πάσχω, “soffro”, in tedesco Einfühlung), cioè la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, pur non adottando il meccanismo della fusione: comprendere gli altri rimanendo se stessi.
L’”erosione empatica”, potremmo dire, è una defettualità in questo meccanismo ed una incapacità di rispondere adeguatamente ai bisogni dell’altro, così come accade nelle relazioni sado-masochistiche in cui l’altro è considerato alla stregua di un oggetto nella relazione duale intersoggettiva e non soggetto, altro da Sè.
Autore: Anna Maria Pacilli, Psicoterapeuta e Psichiatria
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