Sappiamo riconoscere quando la nostra obbedienza all’autorità è frutto di una scelta consapevole o di manipolazione? Negli anni 60′ lo psicologo americano Stanley Milgram ha provato a rispondere a questa domanda con un esperimento controverso.
Etica e obbedienza all’autorità
L’esperimento di Milgram è un esperimento di psicologia sociale condotto per la prima volta nel 1961 dallo psicologo da cui prende il nome. Obiettivo dell’esperimento era studiare il comportamento di individui che ricevono ordini in conflitto con i loro valori. Dopo le iniziali polemiche e lo scalpore provocato dall’esperimento, altri ricercatori lo riproposero con modalità differenti, ma senza cambiarne la sostanza. L’ultima volta nel 2011.
L’esito delle versioni successive purtroppo non si discostò da quello dell’esperimento originario. Per questo i risultati dell’esperimento di Milgram devono preoccuparci oggi come nel 1961.
L’esperimento di Milgram: preparazione
Il campione comprendeva uomini fra i 20 e i 50 anni di varia estrazione sociale. Dietro ricompensa, veniva chiesto loro di collaborare a un esperimento scientifico sulla memoria e sugli effetti dell’apprendimento. Nella prima parte della prova lo sperimentatore, con un collaboratore complice, assegna i ruoli di “allievo” e di “insegnante” tramite un sorteggio truccato. Il soggetto ignaro è infatti sempre sorteggiato come insegnante, mentre il complice come allievo.
Lo scienziato separa poi i due soggetti e li conduce in due stanze diverse. Fa quindi posizionare l’insegnante di fronte al pannello di controllo di un generatore di corrente elettrica. Il generatore ha 30 interruttori a leva associati a livelli tensione elettrica crescente: da leggera a potenzialmente mortale.
Lo scienziato fa provare all’insegnante la scossa della terza leva (45 V) affinché possa comprendere il dolore associato a tale scarica e convincersi che è tutto vero.
L’esperimento di Milgram: esecuzione
Il ricercatore chiede all’insegnante ignaro di porre una serie di domande all’allievo. Il ricercatore ordina quindi all’insegnante di somministrare una scossa elettrica all’allievo ogni volta in cui quest’ultimo dà una risposta sbagliata… L’insegnante dovrà aumentare l’intensità della scossa a ogni errore dell’allievo.
L’allievo è legato a una sorta di sedia elettrica collegata al generatore di corrente nella stanza accanto. Deve rispondere alle domande e fingere di avvertire dolore al progredire dell’intensità delle scosse (che in realtà non riceve). L’allievo attore deve quindi gridare e supplicare l’insegnante di smettere fino a quanto non viene raggiunta la scarica da 330 V. Raggiunta la scarica da 330 V l’alunno non emetterà più alcun lamento e fingerà di essere svenuto…
Durante l’esperimento, il ricercatore (“figura autoritaria“) esorta l’insegnante a continuare a somministrare scariche elettriche crescenti a ogni risposta sbagliata dell’allievo.
Il ricercatore misura il livello di obbedienza di ogni soggetto in base al numero dell’ultimo interruttore premuto prima di ribellarsi e rifiutarsi di somministrare ulteriori scariche. Soltanto al termine dell’esperimento, il ricercatore informa i soggetti che la vittima non ha subito alcun tipo di scossa.
Manipolazione e obbedienza all’autorità: i risultati dell’esperimento
I risultati dell’esperimento andarono contro le aspettative dello stesso Milgram e suscitarono sconcerto nel mondo scientifico e nella società dell’epoca. Molti dei soggetti arruolati, pur mostrando segni di tensione e disagio, obbedirono al ricercatore senza contraddirlo. Numerosi soggetti somministrarono scariche elettriche crescenti, anche quando l’alunno gridava dal dolore e li implorava di smettere. Queste persone riferirono di essersi limitate a eseguire gli ordini e di non sentirsi responsabili delle proprie azioni.
Milgram mostrò quindi come una figura autoritaria, che in un dato momento e contesto è considerata legittima, può indurre diversi individui a un livello di obbedienza tale da indurli a ignorare la propria etica. Di fronte a questo tipo di autorità, i soggetti non si sentono più liberi di decidere in modo autonomo e si considerano semplici esecutori.
Educati all’obbedienza
Siamo educati fin da piccoli all’obbedienza, tanto che alcuni di noi possono arrivare a pensare che i propri valori siano meno importanti del rispetto di regole e convenzioni consolidate. Molti dei soggetti arruolati per l’esperimento hanno confermato di non sentirsi moralmente responsabili delle proprie azioni, in quanto esecutori di ordini altrui. Questo “stato di deresponsabilizzazione” sembra essere innescato da tre fattori in particolare:
- presenza di un’autorità percepita come legittima.
- adesione a un sistema di regole e abitudini condivise e consolidate.
- pressione sociale: disobbedire alla figura autoritaria significa metterne in discussione il potere, perdere la sua approvazione e i vantaggi che ne derivano.
Quando un individuo accetta lo schema di comportamento proposto da un’autorità può arrivare a ridefinire un’azione distruttiva e a percepirla come ragionevole, se non addirittura necessaria.
Obbedienza e deresponsabilizzazione
«Mi hanno detto di farlo», «Ho rispettato le regole», «È stato lui a chiedermelo», «Sono gli ordini, non è colpa mia…», «Sono stata educata così…». Che cosa accomuna queste frasi? Forse la “spensieratezza” e leggerezza della deresponsabilizzazione?
Anche in questo caso, il linguaggio rivela le nostre credenze più profonde e come affrontiamo le prove della vita. Quindi anche il prezzo che siamo disposti a pagare per usare il nostro potere personale in qualsiasi circostanza, rifiutandoci di essere in balia dell’ambiente. Quel potere che nessuno può toglierci se non siamo noi a permetterglielo. Colui che si prende la responsabilità si fa carico di qualcosa di cui altri non hanno voluto sobbarcarsi direttamente. Nel bene e nel male.
È la differenza tra bambino e adulto: il bambino si affida agli altri, lasciando che decidano per lui. L’adulto decide per sé e per tutti i “bambini” che si rimettono alla sua volontà e al suo potere.
Manipolazione e obbedienza: la giusta distanza
Tuttavia, Milgram notò che il grado di obbedienza all’autorità variava in rapporto alla distanza presente tra insegnante e allievo. Milgram testò infatti quattro diversi livelli di distanza. Nel primo livello, l’insegnante non poteva vedere né ascoltare i lamenti dell’allievo. Nel secondo livello, l’insegnante poteva ascoltare ma non osservare l’allievo. Al terzo livello, l’insegnante poteva sia ascoltare che osservare l’allievo. Infine nel quarto livello, per infliggere la punizione, l’insegnante doveva afferrare il braccio dell’allievo e spingerlo su una piastra.
Al primo livello di distanza, il 65% dei soggetti proseguì l’esperimento fino alla scossa più forte; nel secondo livello la percentuale scese al 62,5%; nel terzo livello al 40%; mentre nel quarto livello arrivò al 30%.
Il distacco e la percezione del dolore dell’altro
Quest’ultimo risultato rivela come la nostra disponibilità a infliggere dolore a un altro individuo diminuisca progressivamente di fronte a un maggiore contatto e vicinanza con quest’ultimo. Il distacco fisico ed emotivo ci permette di non percepire il dolore dell’altro. Se non vediamo e non sentiamo i lamenti della nostra vittima, siamo più inclini a continuare a compiere azioni che le infliggono dolore.
Pensiamo quindi alla nostra quotidianità e alle diverse situazioni in cui, pur coscienti che alcuni nostri comportamenti possono provocare sofferenza ad altri, continuiamo a metterli in atto. In questi casi, la nostra obbedienza non si esprime solo verso figure autoritarie con cui interagiamo, ma anche verso il sistema di convenzioni e valori sociali in cui siamo immersi ogni giorno.
Pensiamo ad esempio al consumo di carne: la maggior parte di noi è consapevole del dolore inflitto agli animali negli allevamenti intensivi e dei danni ambientali e alla salute che ne derivano.
Eppure il fatto che la cultura di massa continui ad approvare questo stile alimentare così come la “distanza” tra noi e le vittime nel momento in cui a queste viene inflitto dolore, ci permettono di vivere tranquilli. Molti di noi sono così tranquilli da ridicolizzare quelle minoranze che mettono in discussione tali scelte e si fanno domande più profonde e “scomode”.
Manipolazione e obbedienza: efficienza sociale?
Si può quindi capire come l’introduzione massiccia di nuove regole e stili di comportamento sia più semplice e rapida se siamo già abituati ad aderire spontaneamente ad abitudini condivise dal gruppo.
L’omologazione e l’assenza di pensiero critico è un elemento essenziale del controllo sociale. In questo caso etica e idee personali devono passare in secondo piano rispetto alla condivisione di valori e comportamenti collettivi. Alcuni potrebbero obiettare che anche la natura non è “buona” e segue comportamenti di gruppo che non hanno niente a che vedere con l’etica. Tuttavia, quando si parla di natura, e in particolare del mondo animale, rimane innegabile l’efficienza di tali comportamenti.
In natura, infatti, anche gli atti apparentemente più crudeli mirano alla sopravvivenza della specie.
È quindi normale per un leone attaccare e uccidere un cucciolo di antilope davanti a sua madre e iniziare a sbranarlo partendo dagli arti inferiori. Questo permette al cuore della preda di continuare a battere, mantenendola in vita e preservando più a lungo la freschezza della carne di cui dovrà cibarsi. La natura non è né buona, né cattiva: è semplicemente efficiente.
Ma quale efficienza è presente nell’allevamento intensivo di animali e nei conseguenti danni all’ambiente e alla salute di tutti noi, così come in tanti altri comportamenti che mettiamo in atto ogni giorno su larga scala? Come contribuiscono a rendere efficiente il nostro stile di vita e a prolungare la sopravvivenza della nostra specie?
Il passato è presente
A distanza di quasi 60 anni, l’esperimento di Milgram è ancora in grado di turbare e disorientarci. Il fatto che abbia confermato gli stessi risultati anche in tempi recenti non aiuta chi è alla ricerca di rassicurazioni sulla bontà intrinseca dell’essere umano. Come un monito, oltre il tempo e lo spazio, ci chiede chi siamo e cosa potremmo diventare. Nell’esperimento di Milgram, il limite incerto tra il bene e il male si perde tra le pieghe scivolose dell’obbedienza e del rispetto delle regole.
Quella sottile linea di confine ci chiede cosa siamo disposti a perdere e in che misura perché ogni giorno ci muoviamo dentro a stanze piene di interruttori. E oggi come 60 anni fa ci domanda quanti e quali interruttori siamo pronti a spingere prima di fermarci.
A cura di Francesca Sorrentino, fondatrice del blog Comunicazione dinamica
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