“Non siamo mai così indifesi verso la sofferenza, come nel momento in cui amiamo”. Così affermò il noto psicoanalista Sigmund Freud, rammentandoci che, in effetti, in tema di relazioni, la connessione tra amore e dolore è più stretta di quanto si possa pensare. Ma allora la riflessione di Freud è superficialmente liquidabile nel vecchio e banalizzato detto che “l’amore fa soffrire”? Naturalmente, no ma… forse c’è qualcosa di più!
L’amore secondo Freud
Cominciamo dalle basi. È noto che per Freud l’amore è un impulso narcisistico, che determina una “illusione” di romanticismo. Ovvero, è amando sé stessi che cerchiamo di aprirci all’amore. Di contro, deprezzarsi, non piacersi e trascurarsi, significa trasmettere tali malus al potenziale partner con il/la quale non si riuscirà evidentemente a instaurare una relazione.
Pertanto, l’amore, intenso nei termini freudiani, non è altro che un’illusione, il tentativo di cercare qualcuno che “ci piace”, nei modi in cui è in linea con le nostre ambizioni e i nostri canoni. Una tendenza che si sviluppa in tenera età, e che ciclicamente tende a imporsi nell’uomo e nella donna per tutta la vita, auto-alimentandosi di delusione.
Lo struggimento di una relazione precedente conduce a percorrere la stessa strada di ricerca, fino a quando viene soddisfatta da qualcuno o qualcuna che pensiamo possa essere “amabile”.
Quindi, per Freud la ricerca dell’amore è il continuo manifestarsi di un impulso narcisista, che viene soddisfatto nel momento in cui troviamo qualcuno che soddisfi i nostri “standard” interni. Nei periodi di assenza dell’amore si sviluppa invece nella persona un senso di insoddisfazione, l’impressione di una incompletezza che si ritiene debba essere colmata.
È per questo che amore e sofferenza sono due facce della stessa medaglia. Quando si ama si è maggiormente esposti alla sofferenza. E quando si soffre si cerca di riempire il vuoto e l’insoddisfazione con nuovo amore. Un circolo dall’evoluzione prevedibile, ma dalle ampiezze e dalle caratteristiche di unicità.
Per la scienza l’assenza di amore fa soffrire
È altresì noto che le intuizioni di Freud siano state più volte confermate da ricerche scientifiche più volte elaborate nel corso degli anni, e che hanno cercato di comprendere quali possano essere i rapporti tra il cervello e il “cuore” (o l’anima, se si preferisce), in termini neuroscientifici.
Si può ad esempio rammentare lo studio della nota psicologa e antropologa Helen Fisher, che ha cercato di individuare l’area del cervello “attivata” dalle sofferenze amorose e, dunque, comprendere che cosa accada al nostro corpo quando il cuore si spezza.
Per poter arrivare a tali valutazioni Fisher ha coinvolto un campione di 15 persone recentemente lasciate dal proprio partner, sottoponendole a una risonanza magnetica funzionale. In questo modo Fisher è riuscita a comprendere quali aree hanno un’attività rafforzata e, dunque, hanno bisogno di maggiore ossigeno e glucosio (e pertanto un maggiore flusso di sangue).
Senza scendere troppo nei tecnicismi dello studio, è utile evidenziare come il team coordinato dalla psicologa abbia individuato un’attività più intensa nell’area tegmentale ventrale, laddove si collocano le emozioni determinate proprio dall’amore ma… non solo.
È sempre in questa area, ad esempio, che si trovano le sensazioni determinate dal sesso. O, ancora, quelle che vengono agevolate dalle tossicodipendenze (cocaina). E, ulteriormente, l’appagamento che sorge nel momento in cui beviamo un bicchiere d’acqua dopo aver sofferto la sete.
Come se non fossero sufficientemente rilevanti le valutazioni che sopra abbiamo avuto modo di condividere, c’è un’ulteriore indicazione che, in fondo, non fa altro che soffermare l’intuizione freudiana: dalla stessa area del cervello scaturisce il sistema dopaminergico, il sistema della ricompensa, che “eroga” dopamina e, in sintesi, “benessere”.
La conclusione è quindi presto fatta: l’amore può impattare (e non in maniera irrilevante) sul cervello e… con un meccanismo che ricorda profondamente la dipendenza tipica del sistema di compensazione.
L’amore è una droga
Prendendo spunto da quanto sopra, si può allora cercare di forzare la mano e, con un tocco di superficialità, sostenere che le persone che amano si comportano come coloro che sono dipendenti da sostanze stupefacenti.
Guai, però, a pensare che si tratti di un’esagerazione. Chi ha amato profondamente almeno una volta nella propria vita sa bene quanto sia difficile cercare di controllare l’amore, e quanto possa essere istintivo il romanticismo.
Ma allora se l’amore è una droga, che cosa accade nel momento in cui si viene privati di tale “risorsa primaria”?
In sintesi, dopo la separazione la dipendenza amorosa deve essere lasciata alle spalle, evitando che si creino nuove “tentazioni”. Ovvero, come coloro che stanno cercando di smettere di fumare ben sapranno, l’unico metodo realmente efficace per abbandonare il “vizio” è quello di tagliare del tutto i ponti di collegamento con le sigarette.
Per Fisher, infatti, è fondamentale evitare di avere qualcosa a che fare con la persona che ci ha lasciati (almeno per un lungo periodo subito dopo la separazione). Il motivo? Proprio come nelle tossico dipendenze, più si entra in contatto con l’ex partner e più il sistema dopaminergico del cervello reagisce, auto-alimentando l’impulso che Freud aveva già correttamente anticipato.
Bene dunque eliminare tutti i ricordi che stimolano i pensieri attivi nei confronti dell’ex, comprese le fotografie, i regali, i ricordi e gli oggetti materiali e tangibili che possono fungere da “ponte” nei confronti della persona amata.
Di contro, l’unico modo per poter curare le sofferenze amorose è quello di compensare la mancanza di dopamina con altri mezzi… ma niente “chiodo schiaccia chiodo” altrimenti si finirebbe per non elaborare la perdita. Come compensare la mancanza di dopamina? Si può cercare di incrementare l’attività sportiva, che a sua volta aumenta il livello di serotonina, oppure investendo il proprio tempo in attività piacevoli e appaganti.
L’amore è una questione di vulnerabilità
C’è tuttavia un’ultima riflessione che vogliamo fare, e che rafforza in maniera ancora più efficace le teorie che sopra abbiamo voluto condividere: l’area del cervello che è maggiormente “colpita” dall’amore si attiva nella parte più profonda del tronco encefalico, ove risiedono anche i meccanismi che disciplinano gli altri istinti vitali.
Proprio per questo motivo non è affatto errato dichiarare che l’amore è parte dell’animo umano (e animale), e che è parte integrante del nostro sistema di sopravvivenza, un elemento decisivo per avere la meglio durante la più rigida elezione naturale.
La paura d’amare è una caratteristica dell’essere umano perché ci espone alla nostra fragilità
Una volta lanciati verso il vuoto ci aspettiamo di essere colti dal nostro amore per volare ancora più in alto. Purtroppo o per fortuna non sempre le cose vanno come vorremmo e la vita ci mette a dura prova talvolta. L’amore, in primo luogo, non ammette la preferenza per gli investimenti sicuri, né per le responsabilità limitate. Amare significa in ogni caso essere vulnerabili ed accettare questa vulnerabilità. E ciò non deve spaventarci.
Se eliminiamo la vulnerabilità dalla nostra vita diventiamo completamente insensibili anche all’amore, alla gioia, alla creatività; in breve, smettiamo di vivere e iniziamo a lasciarci vivere, dando il via a un circolo vizioso di sofferenza molto più pericoloso del rischio di un’eventuale sofferenza derivante dal mostrarsi vulnerabili e fragili davanti all’amore.
Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi. Se si vuole essere sicuri che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno affezionandovi ad un animale. Chi ama sa, conosce cioè cosa significa essere investiti da un evento che può essere capito solo a partire da se stesso.
A cura di Ana Maria Sepe, psicologo e fondatrice della rivista Psicoasvisor
Autore del libro “Riscrivi le pagine della tua vita” Edito Rizzoli
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