La resilienza è un prerequisito essenziale per un buon adattamento sociale in quanto consente alla persona di porsi in modo assertivo nelle relazioni e di reagire alle avversità della vita senza sviluppare forme di stress cronico, frustrazione, ansia, rabbia e avversione (o dipendenza) per gli altri. La chiave del benessere sembrerebbe essere la resilienza, è per questo che la comunità scientifica ha approfondito questo concetto sia in termini teorici che in termini pratici, effettuando studi e ricerche dai risultati interessanti.
Che cos’è la resilienza e come si sviluppa
La resilienza non è un qualcosa di innato che ci viene consegnato alla nascita ma si sviluppa attraverso un apprendimento implicito che avviene in età precoce: quando siamo bambini impariamo che l’ambiente può avere un ruolo supportivo e che noi possiamo esercitare una certa influenza sul mondo circostante. Questo apprendimento implicito, purtroppo, non si verifica nei bambini cresciuti con un «genitore irrisolto» o in famiglie disfunzionali. Chi non è resiliente, infatti, non crede di poter cambiare le cose, ma crede tenacemente che tutto ciò che può fare è subire, così finisce per manifestare rabbia, frustrazione e impotenza dinanzi agli ostacoli e non solo.
Molti professionisti di settore, quando parlano di resilienza fanno riferimento a una vaga flessibilità, alla capacità di adattarsi agli ostacoli, in realtà la resilienza non è solo questo; E’ un costrutto molto complesso che coinvolge tutte le sfaccettature della vita, coinvolge l’autostima, il senso di auto-efficacia, la fiducia nel prossimo e in sé, la capacità di regolare il volume emotivo, il tono dell’umore e anche il senso dell’identità personale.
Le persone resilienti sono tipicamente accomodanti perché non sentono il bisogno di affermarsi mediante la sottomissione altrui, quindi nel fare un passo indietro o ammettere un proprio errore, non vedono una minaccia al proprio valore personale, dispongono di buone abilità sociali e sono in grado di far fronte alle difficoltà che incontrano lungo il cammino della vita. La resilienza è definita come un insieme di caratteristiche che vanno dalle aspettative positive riguardo eventi controllabili e incontrollabili, all’autoregolazione emotiva, fino ad arrivare alla flessibilità del sé.
Sono molti gli studi scientifici che hanno indagato questo costrutto. Tra i tanti, riporto gli esperimenti del «Minnesota Longitudinal Study of Risk and Adaptation» (Egeland et al. 2005, The Development of the person). Lo studio longitudinale è iniziato negli anni ’70, osservando donne in gravidanza, ha poi seguito la nascita e lo sviluppo dei bambini analizzando con attenzione le interazioni tra caregiver-bambino. Oggi, questo studio è ancora in atto e sta analizzando la seconda generazione. Il Team del Minnesota, nel valutare il suo campione dell’epoca (rappresentato dai bambini in sviluppo), provò a organizzarlo in due gruppi: un gruppo di bambini «resilienti» e un gruppo di bambini «non resilienti».
Solo osservando la loro storia di attaccamento, il Team di ricercatori, riuscì a individuarne le differenze. I bambini resilienti avevano alle spalle una storia di cure adeguate in quanto il loro sviluppo era avvenuto in un ambiente pienamente supportivo. Questi bambini, con le loro esperienze precoci, avevano appreso che le loro azioni potevano avere un impatto sull’ambiente: gli ostacoli potevano essere superati e che le relazioni affettive potevano essere una risorsa inestimabile. Ogni persona è il prodotto della sua personale esperienza: i bambini che con la loro esperienza avevano appreso che l’ambiente poteva svolgere un ruolo supportivo, riuscivano a sviluppare la resilienza.
La ricerca neurobiologica
Perché la resilienza si sviluppa proprio in età infantile? Perché le esperienze precoci hanno la possibilità di condizionare lo sviluppo cerebrale sia in modo diretto (con la plasticità sinaptica), sia in modo indiretto (con l’interazione gene-ambiente). Le esperienze precoci sembrano avere un peso maggiore delle esperienze successive per una questione temporale (si verificano prima di tutte le altre e si verificano quando il cervello del bambino è in pieno sviluppo). La psiconeurobiologia è una scienza relativamente nuova e ci dice che la resilienza non è solo una caratteristica della personalità; o meglio, ciò che ci dicono le più recenti ricerche (Cathomas et al. 2019, Biological Psychiatry) è che la resilienza è associata a fattori biologici come:
- funzionamento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene
- attivazione del sistema nervoso simpatico
- attività della corteccia prefrontale
- fattori del sistema immunitario e del microbiota intestinale
- sistema cerebrale della ricompensa
- fattori di trascrizione
Anche se l’infanzia è il periodo della nostra vita in cui sembriamo essere più “duttili“, è importante sottolineare che il nostro organismo conserva intatte le medesime capacità di adattamento ontogenetico. In altre parole, le esperienze che noi facciamo nella vita, anche da adulti, possono avere un impatto sulla nostra plasticità cerebrale e sull’espressione genetica (attivando determinati fattori di trascrizione, l’attivazione di tali fattori è mediata dall’ambiente, quindi dalle nostre esperienze).
Ciò significa che, più o meno consapevolmente, potremmo allenarci alle risposte di calma e di riflessione, potremmo affinare le nostre strategie di coping così da sviluppare una buona base di resilienza, che andrà a tradursi in modifiche (fisiologiche) del nostro organismo, con ricadute positive sul sistema trasmettitoriale, sul funzionamento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, sul sistema immunitario, sulla nostra salute intestinale e sul sistema di ricompensa.
La risposta allo stress e la pro-resilienza
La risposta fisiologica allo stress è uguale per tutti, a cambiare è l’intensità e la sensibilità del sistema di risposta. Quando ci sentiamo minacciati, il sistema nervoso autonomo e l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, svolgono un ruolo chiave nell’orchestrare la reazione del corpo allo stress. Questa reazione dipende dalle nostre funzioni cognitive, in particolare dalla nostra capacità di discernere tra uno stimolo minaccioso e uno stimolo neutrale e dipende dalla valutazione che noi facciamo delle nostre risorse. E qui torniamo allo studio longitudinale del Minnesota: se pensiamo di avere le risorse sufficienti per fronteggiare eventi immutabili o per cambiare l’ambiente che ci circonda, la nostra tolleranza allo stress sarà alta. Al contrario, se ci sentiamo spesso impotenti e inermi, la nostra tolleranza allo stress sarà bassa con un’elevata attivazione dell’asse ipotalamo ipofisi surrene.
In caso di minacce (reali o solo percepito, rientrano anche le minacce di abbandono, le minacce all’autonomia, al senso d’identità…), l’ipotalamo secerne l’ormone rilasciante la corticotropina, che agendo sull’ipofisi, induce a sua volta il rilascio dell’adrenocorticotropina, questo ormone viene trasportato fino alla corteccia della ghiandola surrenale (sì, dal cervello siamo arrivati alle ghiandole poste proprio sopra ai reni!) dove induce la produzione di cortisolo. In parallelo a questa risposta chimica, le minacce attivano un risposta automatica anche a livello del sistema nervoso autonomo, in particolare, l’attivazione del sistema nervoso simpatico induce effetti su diversi organi periferici, compreso il cuore, l’intestino e il cervello, molti di questi effetti sono mediati dal rilascio di adrenalina e di noradrenalina.
È interessante notare che la relazione tra l’esposizione allo stress e la risposta allo stress non è lineare. Mentre livelli di stress nulli/bassi e alti hanno un effetto negativo sulle prestazioni, al contrario, un’esposizione moderata allo stress può promuovere risposte adattive, quindi avere effetti pro-resilienti (Cathomas et al. 2019). Questo ci fa capire anche perché un bambino iperprotetto finisce per non sviluppare una buona base di resilienza, perché proprio come il bambino maltrattato (con esperienze di stress protratte), non fa esperienze positive dell’ambiente esterno. Non riesce quindi a sviluppare quella fiducia nelle proprie risorse, necessaria per fronteggiare gli eventi stressanti.
Il sintesi
La resilienza è un processo di adattamento positivo in risposta alle sollecitazioni di stress psicosociale. Si tratta di un processo molto complesso che coinvolge le capacità cognitive dell’uomo (che possono essere allenate o affinate) e meccanismi che coinvolgono sia il sistema nervoso centrale che periferico. Le vie centrali coinvolgono specifiche regioni cerebrali come la corteccia prefrontale, il nucleo accumbens, l’ippocampo, il locus coeruleus e l’ipotalamo; queste strutture sono cruciali nel mediare la risposta allo stress e nel discriminare le sollecitazioni minacciose dagli stimoli neutrali. Le vie periferiche coinvolgono il sistema immunitario e il microbiota intestinale, che sembrerebbero contribuire allo sviluppo della resilienza. E’ importante ricordare che tutte le strutture citate (sia periferiche che centrali) interagiscono fortemente tra loro sia con la via nervosa (sistema nervoso simpatico e parasimpatico) che con la via chimica (ormoni).
Poiché il nostro organismo ha la possibilità di riadattarsi all’ambiente mediante meccanismi epigenetici e di plasticità sinaptica, l’uomo può allenare le sue capacità cognitive così da migliorare l’esperienza che fa del suo ambiente e avere ricadute positive sull’intero organismo.
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