Ci sono legami che sembrano impossibili da sciogliere, anche quando fanno male. Relazioni che feriscono, eppure trattengono. Amori che implodono sotto il peso dell’incomprensione, del silenzio, delle ferite ripetute… eppure ci troviamo ancora lì, a sperare, a perdonare, a cercare quell’affetto che sembra sempre sfuggente. Perché succede? Perché cerchiamo affetto proprio da chi ci fa soffrire?
La risposta non sta solo nel presente, ma in ciò che ci portiamo dentro da molto più lontano: l’infanzia. E in particolare, in ciò che abbiamo imparato a chiamare “amore” quando eravamo troppo piccoli per distinguere tra sicurezza e sopravvivenza emotiva.
Quando l’amore fa male… ma suona familiare
Molti adulti, apparentemente consapevoli e autonomi, si ritrovano in relazioni che assomigliano più a una prova di resistenza che a un incontro reciproco. Si innamorano di persone emotivamente indisponibili, fredde, incostanti o ipercritiche. Oppure restano legati a partner che li svalutano, che li fanno sentire inadeguati, poco importanti, invisibili.
A prima vista sembrerebbe illogico: chi cercherebbe l’amore proprio dove riceve dolore?
Eppure non si tratta di logica. Si tratta di imprinting affettivo. Da piccoli, ciò che abbiamo vissuto nelle relazioni primarie – con i genitori o le figure di accudimento – ha plasmato il nostro concetto di amore. E spesso, ciò che era disfunzionale è diventato familiare. Ciò che era assenza, ipercontrollo, freddezza o rifiuto, è stato interiorizzato come “normale”, persino “sicuro”.
Non perché fosse davvero sicuro, ma perché era l’unica realtà affettiva disponibile.
E il nostro cervello, per sopravvivere, ha imparato a confondere il familiare con il sicuro.
Ecco perché, da adulti, possiamo essere irresistibilmente attratti proprio da chi ci fa sentire “come a casa”… anche se quella “casa” ci ha fatto soffrire.
L’infanzia disfunzionale: la culla degli amori dolorosi
Chi è cresciuto in un ambiente affettivo disfunzionale – anche senza abusi evidenti – ha dovuto imparare molto presto a leggere il clima emotivo per adattarsi. Se l’amore arrivava solo a certe condizioni (comportarsi bene, non fare capricci, prendersi cura del genitore fragile, non disturbare), allora il bambino ha interiorizzato che per essere amato, deve sacrificare parti di sé.
Questi messaggi non sono sempre espliciti. A volte sono sguardi sfuggenti, silenzi lunghi, mancanze croniche di contenimento emotivo, attese disattese. Ma anche piccoli gesti che ripetono un’idea tossica: “sei amato se non sei troppo”, “sei importante se ti fai piccolo”, “non disturbare, altrimenti ti lascio”.
Il bambino impara a regolare il proprio valore in base alla reazione dell’altro. E così si crea un copione affettivo:
- l’altro è sempre più importante;
- l’amore si conquista, non si riceve;
- i bisogni personali devono essere ignorati;
- l’amore è qualcosa che fa male, ma va tenuto stretto.
Questo copione viene custodito nel sistema limbico, nella memoria implicita, e non viene messo in discussione fino a che non entra in conflitto con la vita adulta. Ed è proprio in quell’apparente conflitto – tra ciò che “sappiamo” e ciò che “sentiamo” – che spesso cadiamo in relazioni dolorose senza capire perché.
L’innamoramento come riscrittura (o ripetizione) dell’infanzia
Freud lo chiamava “coazione a ripetere”: la tendenza a riprodurre scenari affettivi noti, anche se disfunzionali, nella speranza inconscia di riscriverne il finale. Da adulti, quindi, non ci innamoriamo solo delle persone, ma delle possibilità che rappresentano: di essere finalmente visti, amati, scelti.
In modo invisibile, cerchiamo partner che attivano le stesse dinamiche relazionali vissute nell’infanzia. E nel momento in cui quell’altro ci tratta come un tempo facevano mamma o papà – ignorandoci, svalutandoci, controllandoci, allontanandosi – una parte profonda di noi si attiva, non per fuggire, ma per trattenere.
Perché? Perché “se stavolta ce la faccio a farmi amare… allora guarisce anche il mio passato”.
Ma spesso, invece di guarire, si cronicizza. Perché l’altro non è lì per curare la nostra ferita. E così, ciò che parte come promessa d’amore si trasforma in una lotta interiore tra bisogno di riparazione e nuova delusione.
L’amore come sopravvivenza
Il bisogno di essere amati non è solo un desiderio affettivo, ma una questione di sopravvivenza psicologica. Il sistema nervoso, fin da piccoli, si è tarato su alcune condizioni: sicurezza, vicinanza, prevedibilità. Se queste non c’erano, il bambino ha sviluppato strategie di adattamento, come il compiacere, l’annullarsi, il prendersi cura degli altri per meritare affetto.
Ecco perché, da adulti, possiamo trovarci legati a persone emotivamente inaccessibili, disfunzionali o persino manipolatorie: perché quel tipo di relazione rispecchia ciò che il nostro sistema nervoso ha imparato a riconoscere come “casa”.
Anche il cortisolo (l’ormone dello stress) ha un ruolo: legami instabili e imprevedibili producono attivazione fisiologica, che il nostro cervello può erroneamente leggere come “intensità emotiva” o addirittura passione. Quando invece è solo attaccamento ansioso innescato dalla paura dell’abbandono.
La sindrome del “bambino buono”
Molti adulti che restano in relazioni tossiche hanno un passato da “bambini bravi”: adattivi, empatici, capaci di intuire le emozioni dell’altro prima ancora delle proprie. Hanno imparato a non disturbare, a non piangere troppo, a non chiedere. E da adulti, questo si traduce in una difficoltà nel riconoscere il proprio diritto a stare bene. Questi adulti spesso:
- giustificano chi li ferisce (“ha avuto un passato difficile”);
- si colpevolizzano (“sono io che ho sbagliato”);
- mantengono un’illusione di controllo idealizzando l’altro (“se mi impegno di più, cambierà”);
- credono, nel profondo, di dover guadagnare amore attraverso la sofferenza, come se il dolore fosse il prezzo da pagare per essere scelti;
- non pensano davvero che l’altro non sappia quello che fa, ma piuttosto sentono di doversi adattare, migliorare, “farsi bastare” le briciole per non essere abbandonati.
In altre parole, non è che non vedono la crudeltà, è che credono di doverla accettare. Perché in fondo, se il partner li tratta male, dev’esserci un motivo: forse non sono abbastanza, forse non meritano di più.
Non è debolezza. È un copione appreso in età in cui non si poteva scegliere. Ma oggi sì. E riconoscere questo è l’inizio del cambiamento.
La ferita del non visto
Alla radice di molte scelte affettive dolorose c’è una ferita invisibile: non essere stati visti per ciò che si era davvero. Non essere stati contenuti nelle emozioni, protetti nelle fragilità, riconosciuti nei bisogni. Quella ferita genera un bisogno spasmodico di conferma: “dimmi che valgo, dimmi che sono degno d’amore, stavolta non lasciarmi”.
Ecco perché si resta. Ecco perché si perdona troppo. Ecco perché si cerca affetto anche da chi ci ferisce: perché si spera ancora di essere finalmente visti. Ma l’amore vero non arriva a patto di sacrificare se stessi. Non chiede prove, né adattamenti estremi. L’amore vero non ti fa sentire in bilico ogni giorno.
Guarire da un legame affettivo disfunzionale non è semplicemente una questione di “uscirne” o “voltare pagina”
È un processo profondo, graduale, e spesso silenzioso, che richiede la capacità di interrompere un copione antico che ci ha insegnato ad associare l’amore al dolore, alla fatica, alla paura dell’abbandono.
Per guarire, serve molto di più che allontanarsi fisicamente da chi ci ha feriti. Serve riorganizzare il nostro mondo interno, riscrivere il significato che attribuiamo alle relazioni, e soprattutto riconoscere l’origine del nostro bisogno di accettazione a ogni costo.
Il primo passo è prendere coscienza del fatto che ciò che ci lega non è amore, ma un meccanismo appreso. Questo non significa sminuire ciò che si è provato, ma dare dignità al dolore e alla sua origine. Spesso la sofferenza che proviamo oggi non è solo per l’altro che ci delude, ma per una ferita antica che si riattiva: la ferita di non essere stati visti, contenuti, protetti quando ne avevamo più bisogno.
Come si guarisce?
Guarire significa allora tornare là dove il dolore ha avuto origine, ma con occhi nuovi e adulti, capaci di accogliere quel bambino interiore che ha lottato per sopravvivere con le risorse che aveva. Significa rifiutarsi di continuare a ripetere, nei legami adulti, il prezzo pagato nell’infanzia per sentirsi amati. È un processo che può passare da queste tappe:
1. Riconoscere il copione affettivo
Significa interrogarsi su ciò che inconsciamente ci attrae nelle relazioni: siamo attratti da chi ci fa sentire in bilico? Da chi ci ignora, ci svaluta, ci fa sentire non abbastanza? Quel disagio, per quanto doloroso, ci è forse familiare?
Comprendere questi pattern è il primo passo per sciogliere la lealtà invisibile verso ciò che ci ha fatto male.
2. Riscrivere l’idea di amore
Molti di noi sono cresciuti credendo che l’amore dovesse essere faticoso, che si dovesse meritare, conquistare, sopportare. Guarire significa ridefinire cosa significa sentirsi amati: non essere perfetti, non essere indispensabili, ma essere accolti così come si è.
3. Tornare a sentire i propri bisogni
Chi ha vissuto in un contesto affettivo disfunzionale ha imparato presto a mettere i bisogni dell’altro al primo posto. Guarire significa riaprire un dialogo interno: di cosa ho bisogno io, oggi? Cosa mi fa sentire vivo, sicuro, sereno?
Significa anche imparare a riconoscere i segnali del corpo e del sistema nervoso, che spesso ci avverte prima ancora della mente.
4. Coltivare relazioni sicure
All’inizio possono sembrare “noiose”, prive di quella tensione emotiva che ci è familiare. Ma è proprio lì che il nostro sistema nervoso impara a rilassarsi, a fidarsi, a ricevere senza paura. Le relazioni sane non generano dipendenza, ma offrono continuità, cura e reciprocità.
5. Dare spazio alla rabbia e al lutto
Guarire richiede anche fare i conti con il dolore antico: la rabbia verso chi non ci ha protetti, la tristezza per ciò che non abbiamo ricevuto, il lutto per l’idea di amore che abbiamo inseguito a lungo.
Solo attraversando queste emozioni, senza giudicarle, possiamo integrare il passato e smettere di ripeterlo.
6. Sviluppare un nuovo dialogo interiore
Molte persone che cercano affetto da chi le ferisce hanno interiorizzato una voce critica, svalutante, iperesigente. Guarire significa educare una voce interiore nuova, compassionevole, assertiva, che sappia proteggerci ma anche incoraggiarci.
È lì che nasce la vera autostima: quando diventiamo il genitore che avremmo voluto avere.
7. Affidarsi, se necessario, a un percorso terapeutico
A volte da soli non ce la si fa. Non perché si è deboli, ma perché alcune ferite sono troppo radicate nel corpo e nella memoria emotiva. Una relazione terapeutica sicura, empatica e non giudicante può offrire quello spazio nuovo in cui apprendere un altro modo di amare, e di essere amati.
Guarire non è dimenticare ciò che è stato, ma scegliere consapevolmente di non portarselo più addosso in ogni relazione. È imparare a distinguere il bisogno autentico di amore dalla paura del vuoto. È riconoscere che l’amore che cerchiamo esiste davvero, ma non può arrivare finché siamo legati a chi ci fa male.
E soprattutto, guarire è scegliersi ogni giorno, anche quando è difficile. È imparare a stare dalla propria parte, senza più rincorrere chi non è disposto a farlo.
Riscrivi la tua vita
Cercare affetto da chi ci fa soffrire non è un segno di debolezza. È il segno di una memoria emotiva che ha bisogno di essere riscritta. E per farlo, non serve colmare la ferita con nuove relazioni, ma avere il coraggio di guardarla in faccia.
Guarire non significa dimenticare l’infanzia disfunzionale, ma rifiutare di continuare a viverla nel presente. Significa imparare che non siamo più quel bambino che doveva meritarsi amore. Siamo adulti che possono scegliere amore che nutre, non che affama.
E se hai sentito qualcosa di tuo in queste parole, sappi che è proprio per te che ho scritto queste righe. Per ricordarti che non sei solo, e che puoi ancora costruire un modo nuovo di amare, a partire dal modo nuovo in cui impari ad amare te stesso. Per approfondire questo viaggio, ti invito a leggere il mio libro “Il mondo con i tuoi occhi”. Non è un semplice manuale, ma uno spazio per riconoscerti, per rivedere il tuo passato con occhi nuovi e ricominciare da ciò che meriti davvero: una felicità che assomigli a te. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon
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Ti aspetto lì per continuare il viaggio.