Lo prendiamo in mano appena ci svegliamo. Lo controlliamo distrattamente mentre mangiamo. Lo consultiamo ogni volta che il silenzio ci sfiora. Lo stringiamo anche quando siamo con altre persone, come se non potessimo mai davvero lasciarlo andare. Il nostro smartphone non è solo un oggetto: è diventato una protesi psicologica, una compagnia silenziosa ma costante.
Se provassimo per un attimo a immaginare la nostra giornata senza smartphone, molti sentirebbero affiorare una leggera inquietudine, una sensazione di vuoto, forse persino un senso di smarrimento. Eppure parliamo di un oggetto tecnologico. Perché, allora, la sua assenza può evocare una tale reazione emotiva?
La risposta non sta solo nella comodità o nella praticità. Va cercata più in profondità, in ciò che questo strumento ha iniziato a rappresentare per la nostra psiche e per il nostro sistema nervoso. Lo smartphone è diventato un contenitore di bisogni emotivi, di ansie, di desideri non detti. E il modo in cui lo usiamo — soprattutto quando scrolliamo in modo compulsivo — racconta molto di come ci relazioniamo con noi stessi, con gli altri e con il vuoto.
Il bisogno di stimoli continui: una mente che non sa più stare ferma
Viviamo in un mondo che premia la velocità, la produttività, la reattività. In questo contesto, lo smartphone diventa un alleato perfetto: sempre pronto, sempre pieno di stimoli, sempre lì per tenerci “occupati”. Ma cosa succede al nostro cervello quando viene costantemente bombardato da notifiche, messaggi, aggiornamenti e video brevi?
Dal punto di vista neuroscientifico, l’uso dello smartphone — in particolare dei social media e delle app con contenuti infiniti — stimola il rilascio di dopamina, il neurotrasmettitore associato al piacere e alla motivazione. Ogni volta che riceviamo un like, un messaggio, o troviamo un contenuto interessante, il cervello registra una “ricompensa”.
Queste ricompense sono intermittenti e imprevedibili, esattamente come nel gioco d’azzardo. È questa imprevedibilità a renderle così potenti: il nostro cervello viene condizionato a cercare costantemente il prossimo colpo di dopamina, come un animale alla ricerca della prossima preda. Non siamo più noi a scegliere il gesto: è diventato automatico, compulsivo, dopaminico.
L’infinite scrolling e il bias della chiusura cognitiva: l’impossibilità di smettere
Una delle caratteristiche più insidiose delle piattaforme digitali è il cosiddetto infinite scrolling — lo scorrimento senza fine di contenuti. Non c’è mai una fine visibile, nessun punto in cui ci si sente “arrivati”. E questo ha un effetto devastante sulla nostra psiche.
Qui entra in gioco un meccanismo cognitivo molto noto: il bias della chiusura cognitiva. Il nostro cervello, per sentirsi sicuro e stabile, ha bisogno che le esperienze seguano una sequenza: inizio, sviluppo, conclusione. Questo schema ci permette di elaborare, archiviare, dare senso. Quando questa chiusura viene a mancare — come nello scrolling infinito — si crea uno stato di tensione sospesa, di disorientamento sottile ma persistente.
Nel tentativo di trovare qualcosa di “risolutivo”, continuiamo a scorrere, come se prima o poi arrivasse un contenuto capace di appagare quella ricerca. Ma la chiusura non arriva mai, e così restiamo intrappolati in un loop che alimenta ansia, stress e iperattivazione del sistema nervoso.
Sistema simpatico sempre in allerta: il prezzo nascosto
Dal punto di vista neurofisiologico, l’uso prolungato e compulsivo dello smartphone — soprattutto attraverso contenuti senza fine — tiene attivo il sistema nervoso simpatico, quello associato alla vigilanza, all’azione, alla reazione. È lo stesso sistema che si attiva in condizioni di stress o pericolo.
Quando siamo continuamente in cerca di stimoli, il corpo non riesce a passare alla fase di rilassamento. Restiamo in uno stato di attivazione costante, che a lungo andare può portare a:
- difficoltà a dormire,
- irrequietezza,
- calo della soglia di attenzione,
- ansia generalizzata.
Il nostro sistema nervoso non ha più spazi di decompressione. E in assenza di pause autentiche, anche il senso del sé si frammenta, si appiattisce sulla superficie luminosa dello schermo.
Una lettura psicoanalitica: il vuoto che ci abita
Se dal punto di vista neurologico la dipendenza da smartphone è spiegabile attraverso meccanismi di rinforzo dopaminico e bias cognitivi, sul piano psicoanalitico il discorso si fa ancora più interessante (e profondo).
Lo smartphone, nel suo essere sempre disponibile, sempre ricco di contenuti e possibilità, si trasforma in una figura transizionale moderna. Un oggetto che, come il peluche o la copertina per il bambino, serve a colmare una distanza emotiva.
Quando prendiamo in mano il telefono senza pensarci, in momenti di noia, solitudine o disagio, non stiamo cercando informazioni o svago: stiamo cercando contenimento, presenza, senso. È un gesto regressivo, che ci riporta a un tempo in cui avevamo bisogno che qualcuno ci vedesse, ci rassicurasse, ci rispecchiasse.
Ecco perché il gesto del “guardare il telefono” può diventare compulsivo: perché non parla solo del presente, ma attiva memorie profonde, legate alla relazione primaria, al bisogno di essere visti e accolti.
Una connessione che non connette
La grande illusione dello smartphone è quella di offrire connessione. Ma spesso si tratta di una connessione simulata, che manca della dimensione corporea, affettiva, relazionale reale.
Sul piano simbolico, più ci affidiamo allo smartphone, più ci allontaniamo dal corpo, dal qui-e-ora, dall’Altro reale. Il nostro sé digitale diventa una maschera performante, una vetrina in cui esporre una versione idealizzata, mentre il sé profondo resta invisibile e affamato.
In termini psicoanalitici, potremmo dire che il telefono offre gratificazioni narcisistiche ma non relazionali. Ricevere like, visualizzazioni o attenzioni momentanee nutre l’Io, ma lascia vuoto il Sé. È un nutrimento che riempie la superficie ma non penetra nel profondo.
Il ciclo di evitamento: dalla fuga all’impotenza
Questa dinamica può diventare un circolo vizioso. Usiamo il telefono per evitare il disagio emotivo, ma proprio questa evitamento cronico alimenta la disconnessione interna. Più ci anestetizziamo con contenuti, più perdiamo la capacità di stare con noi stessi. E quando riemerge il vuoto, torniamo allo schermo. Il ciclo si autoalimenta.
In psicologia clinica questo si chiama evitamento esperienziale: l’incapacità di tollerare le emozioni, che porta a cercare soluzioni rapide per silenziarle. Ma a forza di evitarle, quelle emozioni diventano più rumorose, più pervasive, più confusive.
Rieducarsi al silenzio e alla presenza
Interrompere questa dinamica non significa demonizzare la tecnologia, ma ritornare a una forma più consapevole di relazione con noi stessi. E questo può iniziare con piccoli gesti quotidiani:
- Lasciare il telefono in un’altra stanza mentre si mangia.
- Camminare senza ascoltare nulla, solo col suono dei propri passi.
- Tollerare un momento di noia senza colmarlo.
- Notare quando si prende in mano lo smartphone e chiedersi: “Cosa sto cercando davvero?”
Recuperare questi spazi di silenzio e presenza permette al sistema nervoso di disattivarsi, al corpo di rilassarsi, e alla mente di ritrovare la propria profondità.
Ciò che cerchiamo nello schermo è, in realtà, un incontro con noi stessi
Alla fine di ogni gesto compulsivo, di ogni click, di ogni scroll infinito, non stiamo cercando un contenuto: stiamo cercando un contatto. Qualcosa che ci faccia sentire visti, pensati, considerati. Non siamo dipendenti dallo smartphone in quanto tale, ma dalla funzione simbolica che svolge nella nostra psiche: quella di colmare un’assenza, di coprire un vuoto, di proteggerci dall’angoscia.
In fondo, lo smartphone è diventato il luogo dove cerchiamo risposte che non abbiamo imparato a trovare dentro di noi. È uno specchio che riflette il bisogno di essere riconosciuti, ma non restituisce mai davvero un’immagine completa, perché manca della profondità, del calore, dell’incontro reale.
Eppure, è proprio in quel vuoto che cerchiamo di evitare — il vuoto tra uno scroll e l’altro, tra una notifica e il silenzio — che può iniziare la vera trasformazione. Perché smettere di riempire ogni spazio con stimoli esterni ci permette di ascoltare finalmente il nostro mondo interiore. Quel mondo fragile, profondo, autentico che spesso non ci è stato insegnato a riconoscere, ma che è sempre stato lì, in attesa.
Ed è proprio di questo che parlo nel mio libro Il mondo con i tuoi occhi: della possibilità di guardarsi dentro senza paura, di riconoscere i condizionamenti sociali, affettivi e culturali che spesso ci spingono a vivere in automatico, adattandoci a modelli di felicità che non ci appartengono. Nel libro accompagno il lettore in un percorso che non è solo teorico, ma profondamente pratico, verso una ricostruzione emotiva e identitaria autentica, svincolata dall’idea di dover essere “giusti” o “adeguati”.
Anche la nostra relazione con lo smartphone è parte di questo processo: imparare a riconoscere cosa cerchiamo quando lo prendiamo in mano è il primo passo per scegliere chi vogliamo essere davvero, e non chi ci sentiamo obbligati a diventare.
Perché la libertà — quella vera — inizia quando smettiamo di fuggire da noi stessi e iniziamo, finalmente, a guardarci con occhi nuovi. Con gli occhi di chi sa che dentro ogni vuoto si nasconde una possibilità. Con gli occhi di chi ha il coraggio di vedere. Per immergerti nella lettura del mio libro e farne tesoro, puoi ordinarlo qui su Amazon) oppure in libreria.
A cura di Ana Maria Sepe, psicologo e fondatrice della rivista Psicoasvisor
Se ti piace quello che scrivo, seguimi sul mio profilo Instagram: @anamaria.sepe.
Se ti piacciono i nostri contenuti, seguici sull’account ufficiale IG: @Psicoadvisor