Perché restiamo legati a chi ci fa soffrire?

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

C’è un momento – intimo, silenzioso, quasi vergognoso – in cui ci chiediamo: “Perché non riesco a lasciarlo andare, nonostante tutto il dolore?”. E la risposta non arriva subito, perché non sta nella logica. Sta nelle viscere, nella memoria affettiva, nelle prime esperienze d’amore che ci hanno insegnato – spesso inconsapevolmente – che amare significa aspettare, accontentarsi, sperare.
Restare legati a chi ci fa soffrire non è un segno di debolezza, ma una traccia profonda di come abbiamo imparato ad attaccarci. È una questione emotiva, certo. Ma anche cerebrale, relazionale, archetipica.

In questo articolo proveremo a sciogliere questo nodo con delicatezza e rigore: passando dalla psicoanalisi alla neurobiologia, per capire cosa ci trattiene in relazioni che logorano. E soprattutto, per imparare a sentire quando è il momento di sciogliere quel legame, non con rabbia, ma con consapevolezza.

Il paradosso dell’attaccamento: quando l’amore fa male

In psicoanalisi, l’attaccamento è la base della costruzione del sé. Bowlby lo ha teorizzato come un bisogno primario, non dissimile dalla fame o dalla sete. Ma ciò che spesso dimentichiamo è che l’attaccamento non si forma solo verso chi ci nutre: si forma anche – e a volte soprattutto – verso chi ci fa soffrire, se è quella la figura che ci ha fatto sentire “visti”.

Dal punto di vista neurobiologico, l’attaccamento attiva sistemi profondi: la dopamina entra in gioco ogni volta che si riceve attenzione, anche sporadica, da quella persona. E l’ossitocina, l’ormone del legame, può essere rilasciata persino durante un abbraccio con qualcuno che ci ha feriti. Il cervello registra l’esperienza emotiva, non la moralità dell’atto.

È così che si crea il cortocircuito: il nostro sistema di attaccamento è ancora regolato su uno schema antico, a volte disfunzionale, che ci fa rimanere vicini a chi rappresenta ciò che abbiamo conosciuto come “amore”.

L’inconscio affettivo: quando il passato si ripete nel presente

La psicoanalisi ci insegna che l’amore adulto è spesso un ritorno mascherato al passato. Freud, e più tardi Fairbairn e Winnicott, hanno mostrato come scegliamo inconsciamente partner che rievocano dinamiche irrisolte dell’infanzia. Se l’amore che abbiamo ricevuto era condizionato, discontinuo o punteggiato da rifiuti, potremmo essere attratti da relazioni che riattivano proprio quei vissuti.

A livello neurologico, il cervello funziona secondo il principio della realtà predittiva: tende a confermare ciò che conosce, anche se è doloroso. Le connessioni sinaptiche più utilizzate si rinforzano con il tempo (principio dell’“use it or lose it”) e creano veri e propri binari di pensiero. Se siamo cresciuti aspettando amore, svilupperemo una tolleranza alla frustrazione, credendo che basti attendere un po’ di più perché qualcuno cambi. Questo fa sì che, a volte, non scegliamo ciò che ci fa bene, ma ciò che ci è familiare.

Il rinforzo intermittente: il meccanismo che incatena

Uno dei meccanismi più potenti alla base del legame tossico è il rinforzo intermittente, un concetto nato nel campo del comportamentismo, ma che ha effetti profondi anche sul sistema emotivo e neuronale.

Quando una persona si comporta in modo imprevedibile – oggi amorevole, domani fredda; un giorno presente, il successivo assente – il nostro cervello entra in uno stato di iperattivazione dopaminergica. Proprio come una slot machine che non sai se ti premierà o no, anche le attenzioni altalenanti generano un effetto di craving, cioè di desiderio persistente, nonostante l’assenza di gratificazione stabile.

Il sistema limbico, responsabile delle emozioni, viene continuamente attivato. L’amigdala segnala potenziale pericolo (assenza d’amore), ma la corteccia prefrontale cerca spiegazioni, giustificazioni, razionalizzazioni. Così si instaura un conflitto interno che ci fa oscillare tra speranza e disperazione, senza mai trovare una tregua.

In psicoanalisi si parla di coazione a ripetere: cerchiamo, inconsciamente, di cambiare un finale già scritto, continuando a tentare di “guarire” proprio con chi ci ha feriti. E il rinforzo intermittente è il terreno perfetto su cui questa dinamica si alimenta.

Il bisogno di essere visti: il narcisismo sano che manca

Chi resta in una relazione tossica spesso ha un tratto in comune: il bisogno struggente di essere riconosciuto. In psicoanalisi, questo è legato al concetto di narcisismo primario: un bisogno legittimo, originario, che si sviluppa nei primi anni di vita. Se da piccoli non siamo stati “specchiati” nei nostri bisogni emotivi, finiamo per cercare quello specchio nelle relazioni adulte.

Neurobiologicamente, la mancanza di riconoscimento cronico abbassa il tono della serotonina e alza i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. Il corpo entra in uno stato di ipervigilanza, sempre in attesa di segnali di approvazione. Quando quei segnali arrivano – anche solo per pochi istanti – diventano droga affettiva. E così restiamo. Non per amore, ma per la speranza di essere finalmente visti.

Il senso di colpa e l’illusione di salvare l’altro

Molte persone restano accanto a partner tossici perché sentono di “capirli”. È il salvatore interno, una figura che si forma spesso in chi da bambino si è sentito responsabile del benessere emotivo del genitore. Questo meccanismo, in psicoanalisi, è noto come parentificazione emotiva.

Chi ha sviluppato questo assetto tende a confondere l’amore con la responsabilità, e percepisce come colpa il desiderio di andarsene. A livello cerebrale, il sistema di reward si attiva quando si “aiuta” l’altro, ma allo stesso tempo, si inibisce il sistema dell’autoprotezione. Il risultato è un profondo senso di dissonanza cognitiva: so che sto male, ma credo di essere necessaria. E in questa illusione, si resta. Non per amore, ma per dovere.

Il timore del vuoto e la paura dell’ignoto

Lasciare una relazione tossica significa affrontare il vuoto. E il vuoto fa paura. In psicoanalisi, si parla di angoscia di separazione, un’eco profonda della paura originaria di essere abbandonati.

Dal punto di vista neurobiologico, la separazione attiva l’insula, la regione del cervello associata al dolore fisico ed emotivo. Infatti, il dolore da distacco viene processato negli stessi circuiti del dolore corporeo. Non è una metafora: il cuore spezzato esiste davvero, anche a livello cerebrale.

Per questo molte persone preferiscono restare nel conosciuto, anche se fa male, piuttosto che avventurarsi in un dolore che non sanno prevedere.

Come si rompe il legame tossico: non con la forza, ma con la consapevolezza

La liberazione da una relazione tossica non è un atto impulsivo, ma un processo graduale di riappropriazione di sé. In psicoanalisi, si lavora sul riconoscimento del trauma originario e sulla costruzione di un nuovo oggetto interno che non sia distruttivo. Significa imparare a parlare a quella parte di sé che ha sempre sperato in un amore riparatore, offrendo finalmente cura e contenimento da dentro, e non più da fuori.

Neurobiologicamente, uscire da un legame tossico richiede una disattivazione progressiva del sistema limbico e un rafforzamento delle connessioni prefrontali (quelle razionali e autoregolative). Questo avviene anche grazie a nuove esperienze relazionali sane, a un ambiente affettivo contenitivo, e a pratiche di consapevolezza che ristabiliscono sicurezza interna.

Non è questione di “forza di volontà”. È questione di rieducare il cervello e il cuore a distinguere l’amore dalla dipendenza emotiva.

L’amore che scegli, non quello che rincorri

Se stai leggendo queste parole e senti che qualcosa ti parla dentro, forse è perché anche tu hai amato qualcuno che ti ha fatto male. E forse hai creduto che bastasse amare di più per cambiare le cose. Ma l’amore non nasce dalla lotta, né dalla mancanza. L’amore vero è quello che ti fa respirare, che non ti lascia in attesa, che non ti fa dubitare di quanto vali.

Nel mio libro Il mondo con i tuoi occhi, accompagno il lettore proprio in questo viaggio: dalla dipendenza affettiva alla costruzione di una felicità autentica, slegata dai condizionamenti, dagli amori che non guariscono, dalle immagini tossiche dell’amore romantico. Liberarsi da chi ci fa soffrire non significa rinunciare all’amore. Significa finalmente iniziare a sceglierlo, con maturità, rispetto e coraggio. Per immergerti nella lettura e farne tesoro, puoi ordinarlo qui su Amazon oppure in qualsiasi libreria

A cura di Ana Maria Sepe, psicologo e fondatrice della rivista Psicoasvisor
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