Ci hanno insegnato a pensare che chi ha tutto non possa avere nulla che manca. Che la fama, il denaro e il successo bastino a colmare ogni vuoto interiore. Eppure, proprio chi sembra aver vinto alla lotteria della vita, spesso nasconde ferite invisibili. Negli ultimi anni, numerosi calciatori famosi sono stati coinvolti in casi di ludopatia, lasciando pubblico e media attoniti: “Come è possibile? Hanno milioni, fanno il lavoro che amano, sono idolatrati… Perché rovinarsi così?”.
Ma la mente umana non risponde alla logica dell’apparenza. E la dipendenza da gioco d’azzardo, come ogni dipendenza, è un urlo muto: una richiesta d’aiuto travestita da compulsione. In questo articolo entreremo nel cuore di questo enigma, offrendo una lettura psicologica e profonda del perché tanti calciatori – uomini apparentemente invincibili – cadano nella spirale distruttiva del gioco.
Il successo come anestetico
Il primo grande inganno è credere che il successo protegga dalla sofferenza. In realtà, il successo può diventare una maschera che soffoca l’identità, un riflettore che acceca la consapevolezza.
Molti calciatori iniziano a giocare in età molto precoce. I loro percorsi sono scanditi da regole ferree, allenamenti, ritiri, prestazioni. Mentre gli altri bambini esplorano il mondo, loro imparano che il valore personale si misura in gol, in voti sui giornali, in titoli vinti. Crescono senza tempo per costruire una identità autonoma, scollegata dal campo da gioco.
In psicologia, si parla di falso Sé: un’identità costruita per compiacere, per rispondere alle aspettative. Molti calciatori vivono dentro questo falso Sé. E quando la carriera rallenta, o quando la pressione si fa insostenibile, il fragile castello costruito sulla prestazione crolla. Il gioco d’azzardo diventa allora una valvola di sfogo, un rituale compensatorio, una nuova forma di dopamina.
Il gioco d’azzardo come regolatore emotivo
Il gioco, nella mente del ludopatico, non è un divertimento: è una medicina. Una medicina tossica, ma pur sempre un tentativo di auto-cura. Chi soffre di ludopatia non è motivato solo dalla speranza di vincere denaro, ma da un bisogno più profondo: regolare uno stato emotivo intollerabile.
- Il gioco distrae dall’ansia
- Riempie il vuoto
- Illude di avere potere e controllo
- Offre un brivido, un’emozione intensa in una vita spesso spenta sul piano relazionale
Molti calciatori vivono con un carico emotivo enorme: aspettative, giudizi, invidie, pressioni sociali. Spesso non hanno strumenti per affrontare queste emozioni in modo sano. Nessuno insegna loro ad ascoltarsi, a rallentare, a prendersi cura del proprio mondo interno. Hanno imparato solo ad andare avanti, a ignorare il dolore, a “non sentire”. E così il gioco diventa una strategia dissociativa: non mi ascolto, non mi sento, ma gioco.
Identità fragile e alienazione personale
Dietro ogni comportamento compulsivo c’è una fragilità identitaria. Il calciatore è, per definizione, un uomo pubblico. Ma cosa succede quando il proprio valore viene definito costantemente dall’esterno?
Se gioco bene, valgo
Se commetto un errore, non sono nessuno
Se mi infortunio, scompaio
Se smetto, chi sono?
Questa alienazione dal proprio Sé porta a una progressiva disconnessione emotiva. Il calciatore famoso diventa prigioniero della sua immagine. Il gioco d’azzardo può allora emergere come atto di ribellione inconscia contro un’identità che non gli appartiene più. È un modo per “uscire dal personaggio”, per sentirsi vivo, anche se nel dolore.
Il gioco come illusione di onnipotenza
Sul piano simbolico, il gioco rappresenta un’arena psichica in cui si mettono in scena dinamiche profonde: onnipotenza, colpa, punizione, riscatto. Quando un calciatore scommette, non sta solo cercando di vincere soldi: sta cercando di sentirsi potente in un mondo in cui si sente spesso impotente.
In molti casi, la ludopatia è accompagnata da fantasie inconsce di controllo magico, simili a quelle dei bambini. Il denaro perso viene reinvestito in nuove giocate per “riparare”, per “riprendersi ciò che spetta”. Si entra così in un loop tragico in cui la realtà viene distorta e il pensiero critico anestetizzato.
Non a caso, molti ludopatici riferiscono che non riescono a smettere neppure quando vincono. Perché non è la vincita che cercano. È la scarica emotiva, il picco, la trance dissociativa che li allontana da sé stessi.
La cultura dello spogliatoio e la normalizzazione della dipendenza
C’è anche un aspetto culturale da considerare. In molti ambienti calcistici, il gioco d’azzardo è tollerato, quando non incentivato. Si gioca per sfida, per “fare gruppo”, per noia, per imitazione. La dipendenza si costruisce lentamente, sotto gli occhi di tutti, ma viene minimizzata:
- “Tanto ha i soldi”
- “Lo fanno tutti”
- “È solo un vizio”
Questa normalizzazione della dipendenza impedisce l’emersione del disagio. Il calciatore resta solo, circondato da persone che vedono il sintomo ma non vogliono ascoltarne il significato. E così il gioco diventa la zona franca del dolore, l’unico posto dove sentirsi libero, anche se autodistruttivo.
Il ruolo della solitudine e della mancanza di relazioni autentiche
Essere famosi non significa essere connessi. Anzi, spesso significa il contrario. I calciatori noti vivono in una bolla fatta di contratti, manager, sponsor, tifosi, ma pochissimi hanno relazioni autentiche, spazi in cui sentirsi visti per ciò che sono, non per ciò che rappresentano.
Questa solitudine esistenziale è il terreno fertile delle dipendenze. Quando non si ha nessuno con cui condividere veramente la propria fragilità, si cercano surrogati emotivi. Il gioco d’azzardo diventa così un rituale intimo, una compagnia muta ma presente, un atto solitario che simula la connessione.
Neurobiologia e impulso: il cervello in trappola
Sul piano neurologico, la ludopatia ha meccanismi precisi. Quando scommettiamo, si attivano circuiti legati alla ricompensa dopaminergica. In particolare:
- Il cervello registra il rischio come stimolante
- Ogni vittoria, anche piccola, scatena una scarica di dopamina
- Il meccanismo di “rinforzo intermittente” (vittorie rare e imprevedibili) è il più potente per generare dipendenza
Il problema è che, nel lungo termine, il cervello smette di produrre dopamina in assenza del gioco. Si sviluppa una dipendenza fisiologica, che si intreccia a quella psicologica. Il calciatore dipendente non gioca più per piacere, ma per evitare il malessere dell’astinenza emotiva e biochimica.
La vergogna che blocca la cura
Uno dei principali ostacoli all’emersione del problema è la vergogna. L’idea di essere dipendenti, di “non saper controllarsi”, è inconciliabile con l’immagine virile e vincente del calciatore di successo. E così, anche quando il disagio è evidente, molti non chiedono aiuto.
Alcuni si rifugiano nel negazionismo, altri minimizzano, altri ancora si affidano a figure che li assecondano. Pochi hanno accanto a sé qualcuno che sappia vedere oltre il sintomo. Per questo la prevenzione e la sensibilizzazione sono fondamentali. Per creare un ambiente in cui la fragilità non sia una colpa ma un’occasione di verità.
Oltre il gioco: un bisogno profondo di sé
La ludopatia nei calciatori non è una questione di soldi, né di debolezza morale. È la punta di un iceberg fatto di dolore, solitudine, disconnessione emotiva. È un tentativo, maldestro ma disperato, di colmare una fame di senso, di autenticità, di identità.
Solo quando inizieremo a guardare questi uomini per ciò che sono – esseri umani fragili, complessi, profondamente bisognosi di ascolto – potremo aiutarli davvero. Il vero riscatto non è smettere di giocare. È iniziare a riconoscere, accogliere e trasformare il proprio vuoto in consapevolezza. Solo allora il brivido del gioco potrà lasciare spazio a qualcosa di più stabile, più vero, più umano.
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A cura di Ana Maria Sepe, psicologo e fondatrice della rivista Psicoasvisor
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