Perché torni sempre da chi ti fa soffrire?

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Dott.ssa in biologia e psicologia. Esperta in genetica del comportamento e neurobiologia. Scrittrice e founder di Psicoadvisor

Circa due decenni fa, Amy Winehouse cantava in Back to Black: «We only said goodbye with words, I died a hundred times.» «Ci siamo detti addio solo con le parole, sono morta migliaia di volte». Quante persone abbiamo tentato di archiviare dal nostro cuore, eppure trovano sempre il modo di ferirci? E quante volte glielo permettiamo, nel silenzio delle nostre stesse mancanze?

Non sempre è l’amore romantico a infliggerci le ferite più profonde. Spesso, sono i legami primari — i genitori, le figure d’accudimento — che ci lasciano cicatrici invisibili. E così, inconsapevolmente, passiamo la vita a tentare di riscattare quel dolore, a curare quelle ferite. Nel farlo, scegliamo relazioni che somigliano a quelle originarie, sperando di riscrivere un finale diverso.

Il tentativo inconscio di riparazione

Torniamo sempre da chi ci fa soffrire non per debolezza, ma per un bisogno antico: la speranza infantile di poter cambiare ciò che un tempo ci ha spezzati. E a livello biologico, la nostra mente e il nostro corpo si aggrappano a ciò che conoscono, anche se fa male: un principio di “economia fisiologica” che guida inconsciamente le nostre scelte. Comprendere questi meccanismi profondi è il primo passo per smettere di tornare, e finalmente andare avanti. Ecco perché ho deciso di scrivere questo articolo per parlartene.

La ferita che cerca un finale diverso

In psicoanalisi, tornare a chi ci fa soffrire viene spesso letto come un tentativo di riparazione. Non sopportiamo che una ferita resti aperta. Desideriamo inconsciamente riscrivere il finale, ottenere l’amore, il riconoscimento o l’approvazione che un tempo ci sono stati negati.

Così, scegliamo partner che incarnano le stesse dinamiche dolorose sperimentate nella nostra infanzia (anche se ormai non ne abbiamo più il ricordo!). Speriamo che stavolta vada diversamente. In cuor nostro, speriamo che chi ci nega l’amore, infine, ci ami. Che chi ci rifiuta, finalmente, ci accolga.

Ma questa speranza, nata nell’infanzia, è una trappola. Perché scegliamo inconsciamente proprio chi è incapace di darci ciò che desideriamo. E invece di guarire, riapriamo continuamente la ferita.

Spunto riflessivo: stai cercando il tuo partner o stai ancora rincorrendo il genitore che non ti ha visto?

Il bisogno di familiarità: ciò che conosciamo è ciò che scegliamo

La forza invisibile dell’abitudine emotiva, quello che già sai e quello che ancora non conosci

Il nostro inconscio non ricerca la felicità: ricerca la familiarità. Ciò che abbiamo conosciuto nell’infanzia — anche se era dolore, distanza, rifiuto — diventa il nostro modello interno di relazione.

Se da bambini abbiamo imparato che l’amore è condizionato, discontinuo, inaffidabile, da adulti potremmo essere attratti proprio da chi ci fa sentire in quel modo. Non perché ci piaccia soffrire, ma perché il nostro corpo e la nostra mente riconoscono quel clima emotivo come “casa”. Ciò significa che non è solo una questione di “abitudine/comportmentale/mentale” ma è una condizione fisica! Quell’abitudine si è fatta spazio nei tuoi collegamenti neurali, tra le sinapsi elettriche e chimiche…. Cambiare significherebbe mettere in discussione l’intero tuo pattern fisiologico. Ecco perché è complicato. Non è come cambiare look o guardaroba!

La familiarità è economica, non costa risorse al tuo organismo e allora vince sulla bontà dell’esperienza. In altre parole, preferiamo inconsciamente un dolore noto a un amore nuovo.

Il principio dell’omeostasi: perché il cambiamento costa fatica

L’economia fisiologica del dolore

A livello biologico, il nostro organismo è progettato per conservare energia. Questo principio si chiama omeostasi: il sistema tende a mantenere uno stato di equilibrio che si è fissato nei nostri primi anni di vita, evitando cambiamenti drastici che comporterebbero un enorme dispendio di risorse.

Dal punto di vista neurobiologico, ogni volta che sperimentiamo una situazione conosciuta, anche dolorosa, il nostro cervello utilizza schemi neuronali già consolidati. Le connessioni tra i neuroni, le sinapsi, sono già formate e facilmente attivabili. Invece, cambiare comportamento, cercare relazioni diverse, vivere dinamiche nuove, richiede un grande sforzo: bisogna reclutare nuovi terminali assonici, formare nuove sinapsi, creare nuovi percorsi neuronali.

Questo significa maggiore consumo energetico, più incertezza, più instabilità iniziale. Amare chi ci ama davvero è biologicamente più faticoso, perché ci obbliga a uscire dai solchi emotivi già tracciati.

L’inerzia cerebrale: il peso del già noto

Il cervello, nel suo funzionamento quotidiano, tende a minimizzare lo sforzo. Questo fenomeno di economica fisiologica è noto come inerzia cerebrale. Le reti neurali consolidate richiedono meno energia per attivarsi rispetto a quelle nuove in formazione.

Così, anche a livello emotivo, tendiamo a replicare esperienze note:

  • rincorrere chi ci svaluta,
  • inciampare sempre nei giudizi e nel rifiuto,
  • tentare di guadagnare amore attraverso la fatica,
  • credere che l’amore vada conquistato soffrendo.

Uscire da questa inerzia richiede uno sforzo consapevole: dobbiamo decidere di tollerare l‘inquietudine della novità, la destabilizzazione emotiva che accompagna ogni vero cambiamento.

Ripetizione e senso del sé: chi siamo quando non rincorriamo più?

L’identità costruita sul rifiuto

Quando cresciamo in ambienti dove l’amore è intermittente o condizionato, impariamo presto che il nostro valore dipende dall’approvazione altrui. Non sviluppiamo un senso del sé autonomo e saldo: ci definiamo attraverso lo sguardo degli altri.

In questo scenario, l’amore sicuro — quello stabile, accogliente, disponibile — può sembrare estraneo, freddo, addirittura “noioso”. Non sentiamo adrenalina, non sentiamo la spinta della conquista. E allora, senza volerlo, torniamo a inseguire l’amore difficile, il riconoscimento che non arriva mai.

Spunto riflessivo: chi potresti diventare se non dovessi più lottare per essere amato?

Il corpo ricorda: memoria implicita e attaccamento

Quando il passato vive nei sensi

Il nostro corpo conserva una memoria emotiva silenziosa. Anche se comprendiamo che una relazione ci fa male, il corpo reagisce a certi segnali: un tono di voce, una distanza emotiva, un’assenza intermittente… e, se attivano circuiti neurali già consolidati, ne è attratto!

Ecco perché certe attrazioni sono quasi istantanee. Non hanno bisogno di parole o consapevolezza per attivarsi: basta un dettaglio, una sfumatura, perché la nostra risposta emotiva si accenda, replicando dinamiche antiche. Così, possiamo sentirci attratti da chi ci ferisce non perché siamo deboli, ma perché i “nostri sensi” riconoscono uno scenario già vissuto.

Riscrivere questa memoria richiede tempo: serve vivere nuove esperienze emotive correttive, in cui il corpo possa registrare che è possibile essere amati senza soffrire, essere accolti senza elemosinare.

La fatica del cambiamento: un lavoro biologico oltre che psichico

Uscire dai modelli di sofferenza richiede uno sforzo concreto a livello cerebrale. Quando viviamo un’esperienza nuova — come essere amati senza dover lottare — il cervello deve creare nuove connessioni sinaptiche. Deve costruire “strade” diverse da quelle consolidate negli anni.

Questo implica:

  • Un consumo maggiore di energia metabolica;
  • Un aumento temporaneo dell’ansia dovuto alla destabilizzazione degli schemi abituali;
  • La necessità di perseverare anche quando tutto in noi vorrebbe tornare al noto, anche se doloroso.

Il cambiamento reale non è solo una decisione emotiva: è una ristrutturazione fisica del nostro intero sistema nervoso.

Come si interrompe il ciclo: strategie pratiche

1. Riconoscere il copione

Il primo passo è portare alla luce il copione inconscio. Chi stiamo davvero rincorrendo? Quale bisogno antico cerchiamo di soddisfare tornando sempre da chi ci ferisce? La prima fase di autoesplorazione è indispensabile. Non solo dobbiamo capire il nostro copione ma dobbiamo anche sentirlo.

Per esempio, una cosa è capire “sono stata amata in modo condizionato e pertanto ho assimilato il valore che attribuisco a me stessa al giudizio che gli altri hanno di me”, tutto altro discorso è sentire il dolore che quell’amore condizionato mi ha causato. Noi è da quel dolore che cerchiamo di proteggerci riproponendo lo stesso copione.

2. Accettare il dolore del cambiamento

Lasciare andare relazioni disfunzionali può inizialmente amplificare il senso di vuoto, di smarrimento. È normale. Fa parte del processo di riscrittura neurologica ed emotiva. Oltre a riconoscere i copioni e attraversare il dolore da cui (gli stessi copioni) cercano di proteggerci, dobbiamo viverci un ulteriore disagio legato all’ignoto. È chiaro che fare qualcosa di nuovo ci disorienti, ci faccia sentire confusi… quando si impara qualcosa di nuovo è naturalissimo!

3. Scegliere relazioni diverse, anche se scomode

L’amore sano, all’inizio, può sembrare “strano”, meno eccitante rispetto alla turbolenza delle relazioni tossiche. Serve abituare il sistema nervoso alla stabilità. Prova a chiederti, è davvero noia quella che provo… o è il mio sistema nervoso che non riconosce ancora la calma come qualcosa di sicuro?

Siamo talmente abituati all’altalena emotiva — all’attesa, alla paura, alla conquista — che la serenità può sembrarci vuota, spenta, quasi estranea. In realtà, è solo un territorio nuovo: uno spazio senza allarmi, senza corse, senza la necessità di rincorrere o difendersi. Non è noia. È quiete, è la libertà di poter fare ciò che vuoi. Anche nulla, perché anche nello stare fermi c’è una scelta attiva. Ed è nella quiete che, finalmente, possiamo smettere di sopravvivere… e cominciare davvero a vivere e ricostruire chi siamo.

4. Coltivare la nuova immagine di sé

Costruire un senso di sé solido, indipendente dal riconoscimento esterno, è fondamentale. Questo richiede un lavoro interiore costante: ascoltarsi, accettarsi, imparare a darsi ciò che prima cercavamo disperatamente negli altri.

Conclusione

Tornare da chi ci ferisce non è un atto di stupidità o debolezza. È il risultato di antichi apprendimenti, di meccanismi psicobiologici profondamente radicati. Ma esserne a conoscenza non è affatto una condanna o un alibi per restare nel malessere: è piuttosto una chiave di liberazione. Il punto di start da cui partire.

Significa sfidare l’economia della ripetizione, affrontare la fatica del nuovo, sopportare il disagio che precede la libertà!

Se senti che è arrivato il momento di uscire dal circolo della sofferenza, se vuoi imparare a costruire un amore che non ti chieda di sanguinare per esistere, ti invito a intraprendere un viaggio dentro te stesso. Nel mio libro «il mondo con i tuoi occhi», ti invito a osservarti con uno sguardo nuovo, libero dai copioni antichi, pronto a scegliere finalmente ciò che meriti. Puoi trovarlo in tutte le librerie e anche a questa pagina  amazon. È il saggio di psicobiologia più letto che fornisce esercizi pratici per rendere il cambiamento sostenibile non solo a te (a livello emotivo-comportamentale) ma anche al tuo corpo!

Autore: Anna De Simone, psicologo esperto in psicobiologia
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