Forse sei al ristorante, oppure a casa a guardare una serie TV, ancora, ti stai rilassando sul divano… il tuo partner è seduto accanto a te ma i suoi occhi sono incollati sullo smartphone. Come ti fa sentire? Quando lo smartphone cattura pienamente l’attenzione del nostro partner, proprio mentre noi siamo lì con lui/lei, la coppia può risentirne. A provarlo sono stati diversi studi, tra i tanti Thompson et al. 2022 che si sofferma sulle reazioni (negative) del partner che subisce questo atteggiamento che prende il nome di “phubbing”.
Il termine phubbing si riferisce all’atto di dare priorità al telefono piuttosto che all’interazione sociale (McDaniel e Coye, 2016). Nasce dall’unione dei vocaboli telefono e snobbare (phone e snubbing). In effetti il phubbing è un comportamento indesiderabile, un passo falso sociale. Ma proviamo a rifletterci: perché alcune persone lo fanno? Perché alcune persone danno priorità allo smartphone (scrolling di foto o notizie, uso di social network, app risucchia-attenzione…) quando potrebbero interagire faccia a faccia con i propri affetti?
Perché lo smartphone è più attraente del partner?
Ciò che forse non sai sugli smartphone e sul mondo delle app (social network compresi) è che dietro la “user experience” (l’esperienza d’uso dell’utente finale) c’è un team di ricercatori che ha solo una domanda in mente: come faccio a catturare l’attenzione del mio utente e a fare in modo che dedichi MOLTO tempo alle mie funzioni? La risposta è stata trovata nell’infinity scolling.
Lo scrolling, cioè lo scorrimento continuo e senza fine di tutta una serie di notizie ed elementi sul display dello smartphone, è un’attività attraente per il nostro cervello tanto che TUTTI la impiegano. Questo sistema caratterizza ormai tutti i social network (Instagram, Facebook, TikTok, Twitter/X, LinkedIn, Pinterest…) e anche siti di notizie, app di ricette e giochi.
Sfrutta il “naturale bisogno di chiusura cognitiva”. Il bisogno di chiusura dà vita a un errore noto come bias di completamento, al quale si aggiunge un ulteriore distorsione, il bias unitario. Noi esseri umani, infatti, siamo naturalmente motivati a completare ciò che iniziamo e, secondo diverse osservazioni, tendiamo anche a percepire che qualunque quantità ci venga data, sia una quantità adeguata, pertanto tentiamo di “finirla” per ottenere soddisfazione.
Il bias di chiusura cognitiva o di completamento, è caratteristico anche di quelle persone che iniziano qualcosa e dopo, anche se si rendono conto che quel qualcosa non è bello o gratificante come lo immaginavano, sentono di doverlo portare a termine! Capita con gli studi universitari e, ahimé, anche con le relazioni affettive, quando l’alternativa di porre termine alla relazione viene vista come un fallimento.
Se tutti gli esseri umani sono passibili a questi bias, perché non tutti “ci cadono”?
Non tutti commettono questo scivolone sociale perché scendono in campo altri fattori! Per dirla in termini neuroscientifici, la tendenza al phubbing può essere riassunta in due fattori: la dominanza del sistema di ricompensa e la pigrizia della corteccia prefrontale.
Ammettiamolo, nessuno di noi prendendo la smartphone tra le mani afferma intenzionalmente: «adesso sprecherò 2 ore a scorrere video su TikTok e altri social». Piuttosto, le nostre intenzioni sono sempre molto nobili e si possono tradurre così: «guarderò solo le notifiche», ma poi qualcosa va storto. Che cosa? Da un lato i bias evidenziati in precedenza sembrano attecchire di più in chi ha un forte bisogno di coerenza nella propria vita (chi non ha un forte senso dell’identità ed è sensibile alla minaccia del sé), dall’altro, vi è la ricerca di sicurezza, prevedibilità e appagamento, cose che nella vita reale sono più faticose da ottenere (ma anche più concrete e soddisfacenti a lungo termine).
È nella natura umano cercare prevedibilità e una volta appreso il comportamento (fare scrolling sul cellulare e “divorare” qualsiasi cosa passa la home), questo si trasforma in uno schema, un’abitudine ben radicata che dà sicurezza e appagamento (seppur superficiale e momentaneo). Un «mi piace», un commento, un’immagine di gattini, un video buffo… sono tutti mezzi che attivano il sistema di ricompensa e così, tu, sei motivato a continuare a scrollare.
Quando tiriamo verso il basso il display per aggiornare le nostre notifiche, creiamo pochi secondi di attesa e, in assenza di stimoli gratificanti, continuiamo a cercarli. I “premi”, le nostre “ricompense” non sono affetto scontate, anzi, nella maggior parte di casi, questi premi tardano ad arrivare e non succede nulla di straordinario… Ecco perché continuiamo a cercarli! Anche questo è un modo per ricercare approvazione e gratificazione pronta all’uso. Una visualizzazione tira l’altra, portando a un ciclo -schema ripetitivo- simile a quello osservato nelle dipendenze da gioco d’azzardo.
I creatori di app, piattoforme e social network, cercano intenzionalmente di creare funzioni atte a innescare dipendenza. Molto popolare -tra gli sviluppatori attenti al neuromaketing- è il modello Hook, cioè un sistema che mira a creare nell’user quel ciclo perpetuo di utilizzo suddiviso in quattro fasi: un trigger (che può essere una notifica), un’azione, una ricompensa e un investimento (di risorse, di tempo, di clic, di denaro..). E… il modello Hook funziona!
Come proteggerti?
Prima ho citato due fattori che rendono più inclini all’uso compulsivo dello smartphone: un sistema di ricompensa molto sensibile, di cui ho appena parlato e una corteccia prefrontale pigra. La corteccia prefrontale è quella che ci salva da tutto. Dalle dipendenze affettive, dagli amori tossici, dal sentirci inadeguate e… anche da un partner che ci fa sentire trascurati o lo scrolling! È quella che ci consente di riflettere, di rallentare il ritmo e prendere decisioni più sagge. Si tratta della parte più evoluta del nostro cervello, la sua attivazione è correlata all’introspezione, alla consapevolezza e, finanche alla felicità!
Se non riesci a fare un passo indietro e rallentare esercitando un sano autocontrollo, prova a mettere dei post-it oppure, prima di iniziare a usare i social network, metti un timer sullo stesso smartphone e se lo ignori, ritardalo così da darti una seconda possibilità!
Che effetto suscita il phubbing sugli altri?
Se da un lato chi si incolla allo smartphone sta evadendo dalla realtà e ricercando una sicurezza fittizia, chi subisce questa condotta può sentirsi malissimo! Ignorato, trascurato, completamente invisibile… Se chi subisce questa condotta ha una ferita dell’abbandono, finirà col pensare: «non sono abbastanza», quella sarà l’ennesima prova.
A nessuno piace sentirsi ignorato o poco importante, ma per le persone che hanno problemi di solitudine cronica e ansia da separazione, tale condotta può diventare drammatica. Il phubbing, in alcune persone, può aumentare i sentimenti di solitudine e non valere.
In qualsiasi rapporto, non sorprende scoprire che chi pratica phubbing nella coppia condanna la relazione a scarsi livelli di benessere relazionale. La ricerca (Yam, 2023) ha dimostrato che il phubbing è associato a una minore soddisfazione relazionale e a un maggiore carico di conflittualità.
Le vittime di phubbing, tendono a essere rancorose. Sentendosi trascurate, tendono poi ad amplificare ogni mancanza del partner e apprezzare meno i suoi sforzi, come se il phubbing abbassasse il valore di ciò (anche di buono) che fa il partner. In particolare, chi subisce questa condotta tende a:
- Provare più risentimento
- Sperimentare curiosità e attivare comportamenti invadenti verso lo smartphone del partner
- Vendicarsi, dedicando tempo al proprio smartphone
Si attiva così una dinamica disfunzionale parallela che, anche se all’apparenza non ha nulla a che vedere con l’uso dello smartphone, è guidata proprio da questo strumento!
Ripartire da sé
Per allenarsi all’autoriflessione e vivere una vita di appagante (in coppia o da single), diventa opportuno ripartire da sé e… allenare la propria corteccia prefrontale alla riflessione. Nel mio libro «d’Amore ci si Ammala, d’Amore si Guarisce» (già bestseller), ti spiego come applicare alla tua vita quello che lo psicologo (e premio Nobel per l’economia) Daniel Kahneman, definisce pensiero lento. Quando assecondiamo ansie come la paura di non essere abbastanza, quando rimaniamo prigionieri di relazioni che non ci appagano, quando siamo inclini alla ricerca di ricompense rapide e discapito di ciò che vogliamo a lungo termine (non solo lo scrolling, per esempio, mangiare troppo anche quando vogliamo essere in forma), stiamo assecondando un pensiero veloce, a costo zero per il cervello perché AUTOMATICO. Imparando a praticare l’autoconsapevolezza e, diciamocelo, imparando anche come il nostro cervello ci guida nella vita quotidiana, possiamo diventare finalmente padroni della nostra vita. Il «pensiero lento», unito alle giuste consapevolezze psicoaffettive, è la combinazione perfetta per ricominciare a vivere e non sentirsi più ai margini della propria esistenza. Il libro bestseller «d’Amore ci si ammala, d’Amore si Guarisce», lo trovi a questo indirizzo Amazon o in tutte le librerie d’Italia. E se le dinamiche psicoaffettive ti interessano, incontriamoci! Psicoadvisor sta facendo un tour gratuito in tutte le librerie e biblioteche d’Italia. Ecco le date di ottobre:
Autore: Anna De Simone, psicologo esperto in psicobiologia
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