Quali parti dei tuoi genitori hai interiorizzato in te stesso?

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Molti di noi sono reticenti ad ammetterlo ma… nella nostra vita adulta gli insegnamenti ricevuti dai nostri genitori, durante l’infanzia, risuonano forti fino a condizionare il nostro presente. Il genitore disfunzionale è interno alla nostra struttura di personalità, ma al contempo non ci appartiene, deriva infatti dall’interiorizzazione di convinzioni, regole, attitudini morali e comportamenti genitoriali: in altre parole, quello che ci è stato insegnato e che abbiamo appreso dall’esperienza infantile. 

Nessuno mi può giudicare tranne me: i pensieri autogiudicanti

Avete presente l’angioletto e il diavoletto sulla spalla rispettivamente destra e sinistra del protagonista, comune nell’immaginario cinematografico? Il diavoletto, solitamente, dubita delle intenzioni altrui e dà pessimi consigli. Ora, immaginate che il bersaglio del diavoletto siate voi stessi e che non taccia mai… sempre pronto a critiare.

Nella pratica professionale non è infrequente notare che, quando i pazienti compilano la sezione dedicata ai pensieri (“B” e “P” nei modelli ABC o CESPA), molti di questi rappresentano delle critiche, degli imperativi o dei rimproveri nei confronti di se stessi, un dialogo interiore negativo che mina l’umore e l’autostima della persona e a volte sconcerta noi terapeuti per la sua ferocia. “Sei pessima”, “non meriti niente”, “non sarai mai all’altezza delle aspettative dei tuoi genitori”, “inutile impegnarsi nella dieta e in palestra, non piacerai mai a nessuno”: qualcuna di queste ti suona familiare? In un’ottica di Schema Therapy, questi pensieri auto-giudicanti, doverizzanti e via dicendo possono essere attribuibili alla parte (o mode, secondo l’approccio in questione) del genitore disfunzionale.

Il “mode” del genitore interiorizzato

Il genitore disfunzionale è interno alla nostra struttura di personalità, ma al contempo non ci appartiene, deriva infatti dall’interiorizzazione di convinzioni, regole, attitudini morali e comportamenti genitoriali: in altre parole, quello che ci è stato insegnato e che abbiamo appreso dall’esperienza, in particolare con le nostre figure di riferimento. Questa parte, associata a sentimenti negativi come colpa e vergogna, rappresenta una conseguenza non adattiva a valori morali troppo elevati e stringenti o punitivi ed è spesso caratterizzata da forti pressioni, autosvalutazione e odio per sé; nel primo caso si parla di genitore esigente e, nel secondo, di genitore punitivo.

Il genitore esigente interiorizzato

Il genitore esigente: mette continuamente sotto pressione affinché si raggiungano certi standard; ritiene ci sia un solo modo giusto di fare le cose, cioè la perfezione.

Il genitore punitivo interiorizzato

Il genitore punitivo: la voce interiorizzata della figura di accudimento che critica e, appunto, punisce; si arrabbia con se stesso e sente di meritare di essere punito per aver avuto e manifestato dei normali bisogni che l’ambiente non gli consente di esprimere, men che meno di soddisfare; il tono è duro, severo.

Indicatori

È possibile che sia attivo il mode genitore esigente, ad esempio, quando riteniamo di non meritarci una pausa finché non abbiamo portato a termine tutto il lavoro o se puntiamo a un traguardo irrealistico e irraggiungibile e, una volta mancato, lo eleggiamo a misura del nostro fallimento; sono, invece, segni della presenza di un mode critico punitivo la tendenza a sacrificarsi nelle relazioni, l’autolesionismo e l’ideazione suicidaria.

Entrambi possono coesistere nella stessa persona, con conseguenze deleterie per la stessa in termini di disturbi affettivi e possono rivolgersi anche agli altri. Il guaio con messaggi genitoriali di questo tipo è che sono fortemente egosintonici: li assumiamo come veri e percepiamo come una parte di noi e, pur dolorosi e inclementi con il nostro sé più autentico, il nostro “bambino interiore”, difficilmente riusciamo a porre una distanza critica da essi e a metterli in discussione.

Per farlo, le tecniche cognitive standard (come la ristrutturazione cognitiva mediante la ricerca di alternative, i pro e i contro, il diario di affermazione positiva ecc.) di solito non bastano e si deve procedere con interventi più focalizzati sulle emozioni, come la tecnica dei dialoghi con le sedie, in grado di favorire l’esplicitazione, la comprensione delle origini, la traduzione a una forma egodistonica (ad esempio, “tu devi” anziché “io devo”) e la rivalutazione consapevole di questo deleterio sistema di convinzioni interiorizzato nel passato, buttando – anche letteralmente, se serve! – la sedia del genitore interiorizzato fuori dalla stanza, per rimpiazzarlo con valori morali e principi sani e funzionali e autovalutazioni più bilanciate.

Il pegno d’amore alle figure di accudimento

Anche altri approcci nati, come la Schema Therapy, per rispondere in maniera più efficace a psicopatologie complesse resistenti al trattamento, come il disturbo narcisistico di personalità, il disturbo borderline di personalità e forme croniche di rabbia, ansia e depressione, considerano i comportamenti che le persone mettono automaticamente in atto nella vita adulta – il corrispettivo dei mode di coping della Schema-Focused Cognitive Therapy – la risultante di schemi appresi durante la crescita, soprattutto nell’infanzia e nel rapporto con le figure chiave. In una cornice prettamente sistemico-relazionale, ma che molto si rifà alla teoria dell’attaccamento e alla biologia naturale, la Terapia Ricostruttiva Interpersonale di Lorna Benjamin postula, ad esempio, che schemi e condotte sintomatologiche tipiche dei pazienti “difficili” si colleghino seguendo tre processi:

L’imitazione o identificazione

Ci si comporta come si comportava la figura significativa (essere come lui/lei);
La ricapitolazione: ci si comporta come se si fosse ancora un bambino di fronte a un altro significativo ancora presente, che ha il controllo della situazione e della sua vita (percepisci, senti e agisci come facevi con lui/lei in questa situazione);

L’introiezione: si tratta se stessi come si è stati trattati allora

La TRI chiama però queste internalizzazioni “famiglia in testa”, la rappresentazione interna dei genitori biologici o adottivi e di altre figure di attaccamento che hanno offerto sicurezza, rappresentato una minaccia o entrambe le cose, come i caregiver spaventanti dei soggetti con attaccamento disorganizzato. Secondo la Benjamin, ciò che fa sì che le persone diano retta ai dettami della loro famiglia in testa, riproducendo nel presente lezioni e modelli disadattivi – come scegliere e restare con partner abusanti quando si è stati maltrattati da bambini – è il desiderio di continuare a gratificare, di ottenere il riconoscimento e l’approvazione della versione mentale delle proprie figure di attaccamento, sperimentando una vicinanza psichica ad esse, con la conseguente attivazione del sistema di sicurezza: l’autrice chiama ambiziosamente questo meccanismo un dono d’amore.

Come interrompere il circolo vizioso, vi chiederete? La psicoterapia e, in particolare, lo “strumento” della relazione terapeuta-paziente, potrebbero contribuire a determinare un cambiamento durevole in quest’ultimo, modificando e generalizzando i suoi apprendimenti in merito a ciò che è sicuro e cosa è minaccioso e alle modalità con cui soddisfare in maniera funzionale i propri bisogni ristabilendo, nei limiti della relazione terapeutica, quella base sicura che gli è venuta a mancare.

Autore: Dott.ssa Roberta Borzì, psicologa e psicoterapeta. Istituto A. T. Beck
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