Poesia, scrittura e psicoterapia. Quando scrivere di sé e per sé assume una dimensione curativa.
La psicoterapia, come del resto la lettura o la scrittura, hanno in comune l’espressione verbale come strumento per accogliere, confrontare, comunicare e produrre, eventualmente, un possibile cambiamento nel personale modo di sentire e di guardare.
Si legge per conoscere, si scrive per ricordare, ma si impugna anche la penna per confessare i propri non detti, per fissare davanti agli occhi la più intima espressione di sé, degna solo del proprio sguardo.
La scrittura e la poesia possono essere terapeutiche?
Forse è la più alta forma di terapia, è l’espressione soggettiva che si universalizza e diviene comprensiva di una visione più ampia di sé. Trasformare il proprio dolore o la tristezza esperita in un’occasione di risonanza universale attraverso parole che fissano la dimensione dello scrivere in quella del cogliere se stessi oltre se stessi, diviene veramente occasione di cambiamento.
Non è lo scrivere per lenire la sofferenza ma è trasformare il segno nella possibilità di uscire da quel preciso significato per astrarsi e divenire altro. Un altro che non si accontenta più della sua immediata concretezza ma che tende ad universalizzarsi formalizzandosi.
La rottura dello schema forse è proprio questo. È la possibilità di frantumare argini di pensiero per destrutturarsi e ridefinirsi in termini che vanno oltre la contingenza. La sublimazione del pensiero attraverso parole che, nella pretesa di astrazione, vanno a cogliere il sentire dell’umanità.
La poesia
Se è vero che la terapia agisce per e nel soggetto nella sua unicità e nel rispetto di un sentire che è sempre particolare e non può mai in nessun caso divenire generale e quindi tipico, è anche vero che, nella dimensione poetica le parole perdono quel significato preciso per decantarsi all’interno di forme che danno all’espressione del vissuto tonalità emotive inedite, che riverberano nel lettore sempre e comunque in maniera unica ed irriducibile. La poesia universalizza con le parole ma soggettivizza a livello emotivo, rendendo particolari gli echi di risonanza espressiva. Allo stesso tempo la terapia valorizza la particolarità di ogni vissuto in modo da aprirla all’universalità di infinite possibili altre chiavi di lettura che facilitino ed agevolino al meglio la capacità espressiva e creativa dell’individuo.
Nella poesia, come in terapia, c’è la narrazione di sé attraverso parole che, al di là del racconto, del fatto inteso come accadimento, vanno a nascondere le emozioni e i vissuti più profondi. Spesso sono le parole stesse che divengono una sorta di schermo protettivo, di nascondiglio per le emozioni che, per la loro fragile natura, talvolta preferiscono cercare protezione dietro fiumi di racconti. Ma i fatti, privati della loro connotazione emozionale, divengono solo azioni, sommatorie di accadimenti fini a se stessi.
Le parole allora, contrariamente a quanto si pensi, possono confondere, impedire alla persona stessa di comprendersi ed accogliere la dimensione emozionale più autentica ed intima.
Lo stesso procedimento avviene a livello poetico quando l’autore si sbarazza delle convenzioni, delle parole intese come forma della narrazione e del racconto per andare a collocare l’espressione verbale su un piano emotivo ed universale.
Narrazione di sé
Ognuno di noi può attivare un percorso di autoterapia attraverso la narrazione di sé. Là dove il linguaggio poetico sfugga o tardi a presentarsi, esiste il rischio di cadere in un formalismo forzato ed inautentico.
Lo scrivere di sé in senso autobiografico, allora, può essere una valida alternativa per rispecchiarsi e riconoscersi, provando a collocarsi in una cornice autoformativa nuova, dove il RI-raccontarsi può veramente essere l’occasione per leggere se stessi sotto un’ottica diversa.
Narrare se stessi e rinarrarsi sono possibilità che consentono di rappresentarsi sempre sotto una luce di volta diversa, svelando il proprio sé più autentico che, nel suo mostrarsi, incessantemente continuerà a velarsi. Ed è in questo incessante gioco di velamento e di svelamento che si compie l’azione terapeutica del comprendersi per poi distanziarsi e nuovamente RI-comprendersi, sempre all’interno di stemmi formativi diversi.
Sperimentarsi nella narrazione di sé consente inoltre di indagare nel proprio passato, ponendosi continuamente nuovi interrogativi e lasciando in sospeso suggestioni che possono, successivamente, consentire la costruzione e la decostruzione di nuove ipotesi e riflessioni. Costruire per disfare, montare per poi smontare, sempre alla ricerca di forme che portino, soprattutto a livello emotivo, alla possibilità di sperimentare nuovi equilibri, anche se incerti e fragili, aiutano a percepirsi all’interno di una dinamica che fa dell’equilibrio instabile il problema e la cura insieme.
La narrazione di sé come storia di equilibri mai definitivamente raggiunti e costantemente messi in discussione per raggiungere equilibri altri, sempre comunque destabilizzanti e destabilizzati, diviene allora il problema della soluzione e la soluzione del problema stesso.
Il paradosso di non poter mai raggiungere se stessi attraverso infinite narrazioni di sé e l’impossibilità di non poter non narrarsi per cogliere se stessi diviene il gioco della storia del racconto dell’uomo.
Quel racconto che nasce come bisogno dell’uomo sempre esistito nel corso dei secoli e che incessantemente viene soddisfatto per poi rinnovarsi in nuovo bisogno di narrazione e di incessante Ri-comprensione. Il gioco terapeutico del fare e disfare sempre teso verso un nuovo stare, sempre pronto ad abbandonare per un diverso attuare.
A cura di Andrea Guerrini, psicologo e pedagogista
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