Non è pigrizia, non è debolezza, non è mancanza di volontà. È il tuo sistema nervoso che, dopo un sovraccarico, trova l’unico modo per sopravvivere: spegnersi, rallentare, conservare energie. Tu la chiami depressione ma sei tu al limite, allo stremo delle tue forze, e se il tuo corpo potesse parlarti ti direbbe: «è stato l’unico modo che avevo per dire basta». «Non sto funzionando male. Sto solo reagendo a qualcosa che mi ha fatto troppo male, per troppo tempo, senza che nessuno se ne accorgesse».
La depressione ti sta dicendo che c’è un dolore antico che hai bisogno di elaborare; un dolore per qualcosa che hai perso o che non ha mai avuto: una considerazione profonda e non di superficie. Una considerazione intima e non di sufficienza. Forse una sicurezza mai vissuta o una vicinanza mai provata, eppure talvolta ne sentiamo nostalgia come se fosse state reale quando era reale solo nei nostri bisogni incompiuti.
Viviamo in una cultura in cui cercano di convincerti che la depressione sia un “difetto corporeo” ma è l’esatto opposto. È il corpo che funziona bene e con la sua chimica si adatta a ciò che ti accade introno. La disfunzione neurorecettoriale, legata alla serotonina, è una conseguenza del tuo malessere e non la causa. Se osservi da vicino la tua storia di vita, la tua evoluzione personale, troverai che la depressione ha perfettamente senso. Troverai rabbia per esperienze dolorose mai consolate, senso di rivalsa per ingiustizie mai attenzionate e ferite, tante ferite, che forse non erano mai state viste neanche da te e di certo mai guarite. Allora prenditene cura. Il tuo corpo tornerà a splendere e con esso anche tu.
Le pressioni esterne che creano squilibri interni
Quando viviamo una vita che non ci rappresenta, che non rispecchia i nostri bisogni profondi e non ci gratifica, il nostro corpo non rimane indifferente: entra progressivamente in uno stato di stress. Questo stress non si manifesta solo nelle situazioni di pericolo evidente o in eventi traumatici eclatanti, ma anche – e soprattutto – nei cosiddetti traumi invisibili. Parliamo di quelle esperienze relazionali disfunzionali che, pur non lasciando segni fisici, segnano profondamente il nostro equilibrio emotivo: mancanza di ascolto, invalidazione dei nostri bisogni, trascuratezza affettiva, ambienti familiari freddi e distaccati o al contrario, ipervigili, controllanti e giudicanti.
Quando questo tipo di tensione relazionale si prolunga nel tempo, si trasforma in stress cronico. E non parliamo solo di un senso di insoddisfazione superficiale, ma di uno scompenso profondo che mina la nostra capacità di sentirci al sicuro entro noi stessi. In questo scenario, il nostro sistema nervoso autonomo – che regola molte delle funzioni involontarie dell’organismo – entra in uno stato di squilibrio. Per cercare di rendere l’idea, ti dirò che il sistema nervoso autonomo ha due grandi “bracci”:
- Il sistema simpatico, che ci prepara all’azione, all’attacco o alla fuga, mobilitando energia e risorse per affrontare le minacce percepite.
- E il sistema parasimpatico, che al contrario favorisce il rilassamento, la rigenerazione e il recupero.
In condizioni normali, questi due sistemi lavorano in equilibrio, attivandosi in modo flessibile a seconda delle esigenze. Ma quando lo stress relazionale si cronicizza – soprattutto a causa di traumi relazionali non risolti – il sistema simpatico tende a restare iperattivo, mantenendoci in uno stato costante di allerta e di ipervigilanza. Col tempo, questo stato di tensione prolungata può condurre a un esaurimento delle risorse interne, con il rischio che il sistema parasimpatico ci conduca verso stati di chiusura, apatia, immobilità e spegnimento emotivo: le porte di ingresso alla depressione.
Questo è uno dei meccanismi neurofisiologici alla base della depressione: non è solo un crollo dell’umore, ma un adattamento biologico estremo che cerca di proteggerci da un mondo percepito come troppo ostile o insostenibile.
Quando il mondo relazionale non rispecchia i nostri bisogni
Come chiarito, la depressione non è solo una questione “interna”, ma è strettamente legata al contesto in cui viviamo, specialmente alle dinamiche relazionali precoci che si sviluppano nell’ambiente familiare. Anche se la depressione emerge da adulti, infatti, può avere radici nascoste e molto antiche. Per esempio, se cresciamo in una famiglia in cui i nostri bisogni emotivi non vengono riconosciuti, validati o soddisfatti, il messaggio implicito che riceviamo è: “ciò che senti non ha valore” oppure “non sei al sicuro a esprimere ciò di cui hai bisogno”.
Questo tipo di ambiente mina profondamente la nostra autoregolazione emotiva. Quando veniamo costantemente disconfermati o ignorati, il nostro sistema nervoso entra in uno stato di iper-vigilanza (attivazione simpatica cronica) per cercare di “gestire” la minaccia invisibile dell’abbandono emotivo o della mancanza di accudimento. Tuttavia, quando il sistema rileva che non c’è via d’uscita – che nessuna strategia di coping sembra funzionare – può avvenire una sorta di “shutdown”: come premesso, il corpo e la mente si spengono per autoprotezione.
La depressione non è solo un sintomo, ma un adattamento, una risposta estrema e dolorosa a un ambiente relazionale che ci ha privato della possibilità di regolare le nostre emozioni in modo sano. È come se la nostra mente dicesse: “Se nessuno vede il mio dolore, allora tanto vale che io non senta più nulla”.
E la serotonina, allora?
In questo quadro, è importante sfatare un mito ancora troppo diffuso: i livelli di serotonina non sono fissi né puramente genetici. Al contrario, la serotonina – uno dei neurotrasmettitori più studiati nella depressione – è fortemente modulata dalla qualità delle nostre esperienze, soprattutto relazionali.
Relazioni appaganti, caratterizzate da empatia, ascolto, sicurezza affettiva e reciprocità, favoriscono la produzione di serotonina e altri neurotrasmettitori del benessere, creando un senso di sicurezza interna che aiuta la regolazione emotiva. Al contrario, ambienti relazionali privi di comprensione, reciprocità, accettazione e pieni di sentimenti ambivalenti (es. gli voglio bene ma non lo sopporto) riducono la disponibilità di serotonina e portano a uno squilibrio dei sistemi neurochimici che regolano l’umore.
Non è un caso che la deprivazione relazionale – specialmente in età evolutiva – possa alterare la neuroplasticità del cervello, rendendolo più vulnerabile allo sviluppo di disturbi dell’umore (ciclotimia, disturbo bipolare, depressione…). La serotonina, in questo senso, può essere vista come un “barometro sociale”: fluttua in base a quanto ci sentiamo riconosciuti, accuditi, ascoltati e sicuri nei nostri legami affettivi.
Ricostruire la propria storia personale è indispensabile per la guarigione
La depressione, quindi, non è solo un “malfunzionamento” interno che emerge dal nulla. È la voce di un corpo che non è mai stato ascoltato. È il risultato di un sistema nervoso che fa tanta fatica ad autoregolarsi perché ha interiorizzato relazioni frustranti e ambienti emotivamente deserti. Per questo, non possiamo curare la depressione senza riconsiderare la qualità delle nostre relazioni e l’ambiente sociale in cui siamo inseriti.
Uscire dalla depressione significa anche riconnettersi a sé stessi, imparare a dare voce ai propri bisogni, e creare spazi – dentro e fuori di noi – in cui sentirsi finalmente visti e accolti. Se ti va di iniziare un cammino di introspezione e consapevolezza, “il mondo con i tuoi occhi” (lo trovi a questa pagina amazon o in libreria) è un ottimo alleato. Non è un semplice libro, è una chiave. Una chiave capace di aprire porte che credevi sigillate, di illuminare angoli di te che avevi nascosto, di sciogliere nodi che sembravano impossibili da allentare. “Il mondo con i tuoi occhi” parla di te, delle tue ferite invisibili, di quegli schemi nascosti che ti condizionano senza capire perché. Ma soprattutto, parla del coraggio di guardare alla tua storia e iniziare un nuovo capitolo.
Autore: Anna De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia
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