Se ti senti sbagliato, forse non hai bisogno di cambiare ma di guarire

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

C’è un momento, spesso silenzioso e invisibile, in cui qualcosa dentro di noi si incrina. Non parliamo di un trauma eclatante, di quelli che tutti riconoscono come dolore evidente. Parliamo di crepe sottili, di piccole ferite che si accumulano nel tempo. Un’espressione severa, uno sguardo mancato, una parola detta a metà, un bisogno ignorato. Un giorno dopo l’altro, queste esperienze iniziano a costruire una narrazione interna: “C’è qualcosa in me che non va”.

Cresciamo con l’idea che la soluzione sia cambiare

Diventare più bravi, più belli, più veloci, più silenziosi, più forti, più sorridenti. Ci adattiamo. Ma ogni adattamento è anche una rinuncia. A volte, nel tentativo di essere accettati, smettiamo di essere noi stessi. Ecco perché molte persone oggi, pur avendo “fatto tutto giusto”, si sentono sbagliate. E si chiedono cosa c’è ancora da cambiare, senza sospettare che il nodo vero non sia nel cambiamento, ma nella guarigione. Questa riflessione nasce da un bisogno profondo: rimettere al centro la verità più umana che ci appartiene. Non sei nato per cambiare te stesso fino a smettere di riconoscerti. Sei nato per guarire ciò che ti ha insegnato a dubitare di te.

Quando nasce la sensazione di essere sbagliati

La percezione di sé si forma molto presto. Nella primissima infanzia, il bambino non ha un’identità autonoma: si costruisce attraverso il modo in cui viene guardato, contenuto, riconosciuto. Quando un genitore (o chi si prende cura di noi) è sintonico, accogliente, disponibile emotivamente, il bambino interiorizza una sensazione di valore intrinseco. Non deve fare per essere amato. Gli basta essere.

Ma se lo sguardo dell’altro è assente, distorto o condizionato, il bambino inizia a costruire un senso di sé frammentato. La mente infantile, pur di non compromettere il legame con l’adulto da cui dipende, si autoaccusa: “Se mamma è triste, è colpa mia”, “Se papà si arrabbia, ho fatto qualcosa di sbagliato”, “Se non mi parlano, non valgo abbastanza”. Ecco che il bambino inizia ad allinearsi all’idea che il problema sia lui. Non si chiede mai cosa c’è che non va nell’ambiente: si convince che deve correggersi.

Questa tendenza, nella psicoanalisi, è stata ampiamente studiata. Il falso Sé descritto da Donald Winnicott nasce proprio da questa necessità di sopravvivere emotivamente in ambienti poco accoglienti. Il bambino crea una versione di sé funzionale all’amore dell’altro, rinunciando alla spontaneità e alla verità emotiva. E così, anni dopo, ci si ritrova adulti perfetti, competenti, adattati… ma terribilmente disconnessi da sé stessi.

Cambiare per essere amati: la trappola affettiva

La sensazione di essere “sbagliati” genera spesso un’incessante ricerca di approvazione. Chi non è stato amato in modo incondizionato, tenderà a credere che l’amore si ottenga attraverso la performance: essere all’altezza, essere utili, essere necessari. Non si sente mai “abbastanza” perché, nella sua storia, l’amore è stato condizionato da comportamenti, non garantito dalla semplice presenza.

Questo schema si radica anche a livello biologico. Il cervello, nel tentativo di evitare il dolore del rifiuto, attiva meccanismi di adattamento neurochimico: aumenta la sensibilità agli stimoli sociali e si iperattiva nella lettura del volto e della voce altrui (un meccanismo chiamato neurocezione). Il sistema limbico, in particolare l’amigdala, registra ogni segnale che potrebbe indicare rifiuto o disapprovazione. E ogni piccola variazione nel tono emotivo dell’altro diventa un allarme.

Questo porta alla cosiddetta reattività ansiosa: il corpo si mette in stato di allerta anche quando non ce n’è bisogno, e la persona entra in una modalità di ipercontrollo, cercando continuamente di prevenire il giudizio o l’abbandono. Ma la verità è che nessun cambiamento superficiale — estetico, comportamentale, professionale — potrà mai colmare quella ferita primaria: la mancanza di accoglienza incondizionata.

Il cambiamento come evitamento del dolore

La cultura contemporanea ha trasformato il “cambiamento” in un mantra. Cambia mindset, cambia abitudini, cambia vita. Ma non ci si chiede mai da dove nasca questa spinta. Il cambiamento non è sempre crescita. Spesso è fuga. Tentativo di non sentire.

In ambito psicoanalitico, si parla di difese dell’Io: meccanismi che servono a proteggerci dal dolore psichico. Il perfezionismo, la compiacenza, l’iperattività sono spesso difese ben camuffate da virtù. Eppure, dietro di esse, si cela una grande paura: quella di sentire il vuoto, il rifiuto, il senso di inadeguatezza.

È importante riconoscere che cambiare può essere utile solo se nasce da un luogo di cura, non da un bisogno di riparazione. Altrimenti è solo un modo più sofisticato per confermare l’antico copione: “Non vai bene così come sei”. Guarire, al contrario, implica attraversare il dolore. Non evitarlo. Non mascherarlo. Implica rimettere le mani nelle ferite aperte con dolcezza, ascoltarle senza giudizio, e finalmente dare loro un senso.

Guarire significa reintegrare ciò che hai dovuto separare

Dal punto di vista neurobiologico, le esperienze dolorose non elaborate vengono “immagazzinate” nel sistema nervoso sotto forma di tracce implicite. Queste memorie non sono verbali né consapevoli, ma si manifestano attraverso sensazioni corporee, emozioni ricorrenti, reazioni automatiche.

Le tecniche terapeutiche più efficaci oggi — come l’EMDR, il somatic experiencing o la psicoterapia psicodinamica — lavorano proprio sull’integrazione di queste esperienze. L’obiettivo non è cambiare la persona, ma permetterle di reintegrare le parti che aveva dovuto dissociare per sopravvivere. Guarire significa riconoscere che non eri sbagliato, eri solo non visto. Non amato nel modo di cui avevi bisogno. E che per proteggerti, hai nascosto (a te stesso e agli altri) ciò che in realtà era più vero di tutto: la tua vulnerabilità.

Non sei sbagliato: sei stato formato da esperienze che non hai scelto

Il nostro senso di identità si forma in risposta all’ambiente. Ma non sempre l’ambiente ha avuto la capacità di sostenerci. Eppure, il nostro cervello — come ha dimostrato la neuroplasticità — è in grado di trasformarsi per tutta la vita. Ma solo se gli diamo un motivo emotivamente valido per farlo.

In altre parole: la guarigione è possibile, ma non accade attraverso l’autoflagellazione. Accade attraverso l’accettazione. E la compassione.

Se ti sei sentito sbagliato, probabilmente è perché qualcuno ti ha fatto credere che le tue emozioni, i tuoi bisogni, la tua sensibilità non andassero bene. Ma non erano le tue emozioni a essere eccessive. Era l’altro a non avere spazio interno per contenerle. Quando rivedi la tua storia con occhi nuovi — senza più accusarti, senza cercare di cambiare chi sei — inizi a riconoscere che ciò che hai creduto “troppo” in realtà era semplicemente… te.

Guarire è tornare a casa

Guarire non è un traguardo. È un processo continuo, fatto di piccoli atti quotidiani di gentilezza verso sé stessi. Non è un cambiamento appariscente, ma un ritorno. Un ritorno a quella parte autentica che avevamo sepolto sotto anni di adattamenti, paure e silenzi.

Significa cominciare a guardarsi con occhi meno giudicanti. A sentire il proprio corpo come un luogo sicuro, non come un contenitore da correggere. A riconoscere che il dolore che porti non è una colpa, ma una storia che merita di essere ascoltata con amore.

Se ti senti sbagliato, ricordati questo: non devi cambiare per essere amato. Devi guarire per tornare ad amarti.
E quando cominci a guarire, non sei più in guerra con ciò che sei. Ti concedi il lusso immenso di esistere senza scusarti.

La guarigione non è un evento magico, ma una serie di scelte consapevoli. Come smettere di rincorrere chi non ti vede. Come imparare a dire di no senza colpa. Come restare nei giorni difficili senza giudicarli inutili. Ed è proprio in questa fedeltà a te stesso che scoprirai ciò che cercavi altrove: la sensazione di essere finalmente a casa. Dentro te.

Se queste parole ti hanno parlato, se dentro di te senti che stai ancora cercando un modo per riconciliarti con la tua storia, forse potresti iniziare un viaggio più profondo. Nel mio libro “Il mondo con i tuoi occhi” ho raccolto strumenti ed esperienze per aiutarti a fare proprio questo: smettere di inseguire l’idea di chi dovresti essere, e iniziare a costruire — dolcemente, con rispetto e coraggio — una vita che ti somigli davvero. Non per diventare qualcun altro. Ma per tornare, finalmente, a te. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon

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