“Io sono me stesso”, “Sono fatto così, prendere o lasciare”, “Questo è il mio modo di essere”.
Il frasario tipico di chi dietro espressioni evidentemente tautologiche prive di significato rifiuta di affrontare un problema o di sviluppare in modo costruttivo una discussione.
L’essere se stessi infatti non è un merito, ma un dato di fatto: chi dovresti essere altrimenti? Cosa aggiunge “l’essere te stesso” ad un rapporto quando ciò comporta conflitto e insoddisfazione? E poi, come dice sempre Richard Bandler, fondatore della programmazione neuro-linguistica – una interessante disciplina che studia la comunicazione umana- “perché ti ostini a essere te stesso, quando puoi essere una persona migliore?”.
“Essere me stesso”
Ciò che chiamo “essere me stesso” non è altro che la definizione che scelgo di darmi rispetto a me, agli altri e al mondo, non è altro che una costruzione della mia identità in questo momento della mia vita, definizione che non è necessariamente l’unica o la più funzionale.
Quanto più rigida è la definizione che do di me stesso, tanto più mi espongo a problemi, tensioni e conflitti. Perché l’essere se stessi è una condizione dinamica, che muta coi nostri obiettivi e desideri e, quando rimane ostinatamente ancorata a una struttura invariante e monolitica nonostante le questioni che la vita e gli altri mi pongono, vuol dire che il mio “essere me stesso” non funziona più in quelle situazioni della mia vita.
Un gioco dove solo una parte può vincere
A che serve allora dire all’altro: “Io sono me stesso quindi se non ti va bene è un tuo problema”?
Il significato di un’affermazione simile confonde la mente dell’interlocutore che non può in alcun modo accedere al concetto di “essere se stesso” che l’altro impugna come una rivoltella.
Chi afferma “Sono fatto così” di rado si prende il disturbo di spiegare cosa intenda, quale magnifico mondo si celi dietro quel perentorio “così”. Non veicola alcun contenuto utile, ma se ne serve per scaricare la il peso dei problemi sugli altri e sul mondo e, soprattutto, per opporre in modo violento e prevaricante il proprio modello a quello dell’altro, come chiedergli:
“Beh, se proprio vuoi interagire con me che sono me stesso, rinuncia tu ad essere te stesso”.
Che cos’è? Un paradosso psicologico molto diffuso, un assurdo relazionale che descrive un gioco a somma zero in cui l’essere se stessi è consentito soltanto a uno dei due e la personalità più dura e ostinata vince sulla più malleabile. Quando ciò accade si va verso il compromesso, una pseudo-soluzione molto frequente che serve solo a procrastinare i problemi sino a che il peso di chi è graniticamente se stesso non diventa soffocante per chi invece mette a tacere (sbagliando) le proprie esigenze per la buona pace del rapporto.
Il compromesso serve a procrastinare la crisi e, poiché non la risolve in alcun modo, la esacerba in modo impercettibile ma inarrestabile.
A chi oppone la propria rigida definizione di sé all’altro varrebbe la pena di chiedere:“Perché non si può “essere se stessi” in due e stare bene senza massacrarsi in un braccio di ferro?”
La domanda cadrà in un vuoto mentale per chi è abituato a definirsi in modo egocentrico, competitivo e contro-dipendente rispetto al mondo esterno. Per chi usa “l’essere se stesso” come una scimitarra non ha nessun senso pensare che due identità distinte possano conciliarsi, rispettarsi e scambiarsi reciprocamente il meglio, amarsi e assecondare le rispettive differenze senza ingaggiare estenuanti baratti psicologici.
Un ultimatum che riduce la possibilità di scegliere.“Io sono me stesso” suona come un ultimatum che insidia la relazione su più livelli perché contiene molte sgradevoli implicazione.
Ovvero: io sono me stesso, e tu non lo sei (sei falso); io sono me stesso, e tu devi accettarmi prendere o lasciare; io sono me stesso, e valgo più di te; io sono me stesso, e me ne infischio se a te non va bene (me ne infischio di te).
Non è perciò un caso che una frase simile pronunciata all’interno di una discussione la faccia deragliare in un imbuto conflittuale che prevede tre sole soluzioni: attacco, fuga o stallo.
E, come insegna Paul Watzlawick, uno dei massimi studiosi della psicologia della comunicazione, quando ciò accade, la relazione è in pericolo e lambisce i confini della patologia.
Nosce te ipsum: conosci te stesso
NOSCE TE IPSUM, conosci te stesso era il monito che accoglieva chi sbarcava nell’isola di Delo, il tempio della conoscenza della Grecia Antica. Non SII TE STESSO, ma CONOSCI te stesso.
- Conosci te stesso e apprendi dai tuoi errori, conosci te stesso e cambia se non sei felice così;
- conosci te stesso e chiediti quando sei cambiato l’ultima volta o almeno ci hai provato;
- conosci te stesso mettendoti nei panni degli altri che hanno a che fare con questo “te stesso” e chiediti cosa fai per la loro felicità e cosa invece fanno loro;
- conosci a fondo te stesso e scopri che un’identità davvero completa ed equilibrata non si contrappone né si impone a quella altrui;
- conosci te stesso e valuta se valga la pena ascoltare chi ti dice che questo “te stesso” è fonte di frustrazione oppure, onestamente, prendi la tua strada senza imputare agli altri o al mondo le tue inappellabili decisioni.
Parafrasando Bandler, puoi ostinarti ad essere te stesso, se sei uno che si accontenta ma puoi cambiare, se aspiri veramente alla felicità.
A cura di Enrico Maria Secci, Blog Therapy, Psicologo psicoterapeuta
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