Sindrome della capanna: resistenza inconscia del ritorno alla normalità

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

In periodo di coronavirus ci sono state numerose speculazioni mediatiche ma la sindrome della capanna non è tra queste.

La sindrome della capanna è stata osservata per la prima volta intorno al 1900, quando la febbre dell’oro spingeva l’uomo in contesti remoti e ameni.

I cacciatori d’oro si trasferivano stabilmente in località del Nord America dove gli inverni erano talmente rigidi da costringerli per lunghi periodi confinati nei loro capanni. Con l’avvento della primavera, quando i cacciatori d’oro dovevano riprendere il lavoro, mostravano sintomi di disorientamento, angoscia e paura. L’angoscia del contatto con l’esterno (in assenza di minacce) induceva il cacciatore d’oro a perpetuare l’isolamento.

E’ importante sottolineare la condizione di “assenza di minacce” perché la sindrome della capanna non ha nulla a che vedere con i pericoli esterni. Si potrebbe pensare che la sindrome della capanna che interessa circa 1 milione di italiani (dati della Società Italiana Psichiatri) possa essere riconducibile alla paura del contagio, ma non è così!

Paura del contagio e sindrome della capanna sono fattori svincolati l’uno dall’altro, certo, possono essere correlati ed è presumibile pensare che la paura del contagio possa aggravare la sindrome della capanna… tuttavia tale sindrome si presenta in modo del tutto indipendente dai pericoli oggettivi che l’uomo potrebbe trovare fuori dalla sua capanna!

Insomma, chi ha trascorso un lungo periodo di degenza chiuso in casa potrebbe aver già esperito i sintomi della sindrome della capanna, anche in periodi ben lontani dal coronavirus!

Come si manifesta

Anche se lo stato d’allerta è ancora elevato, con la Fase 2 sono molte le persone che hanno ripreso le attività lavorative e altre che, man mano, stanno pianificando il ritorno a una nuova normalità.

Il coronavirus ha costretto interi stati alla quarantena. Il periodo di quarantena è stato vissuto in modi discordanti: tra l’insofferenza di molti e la serenità di pochi. Un gruppo di persone, con la quarantena, ha trovato un immediato adattamento e quasi uno stato di comfort nel confinamento domestico.

Altre persone hanno riferito forte insofferenza nell’isolamento, tuttavia con l’avvicinarsi del ritorno alla normalità hanno ugualmente sperimentato sintomi di forte disorientamento, angoscia e paura.

La paura di ritornare a una vita “normale” è la manifestazione portante della sindrome della capanna. Questa paura non nasce all’improvviso. Ognuno di noi, nel vivere il quotidiano affronta dei doveri e ricopre dei ruoli che non sempre sono congeniali alle proprie aspirazioni. La quarantena ha causato un distacco drastico, un completo alleggerimento delle pressioni sociali.

La paura del ritorno alla normalità può rimarcare dei timore che in precedenza erano presenti in modo latente: alcuni aspetti già prima della pandemia potevano costituire un pesante carico emotivo

In più, lo stato di emergenza nazionale legittima la volontà di rimanere in casa offrendo ulteriore terreno fertile alla sindrome. Aggrapparsi alle parole del Premier Conte (e al buon senso) per evitare il contagio ma anche per evitare situazioni, emozioni e pressioni sociali (lavorative, familiari, relazionali…).

Chi può soffrirne?

Chi ha tratti di personalità evitante, probabilmente è più vulnerabile alla sindrome della capanna.

Un “tratto” di personalità non equivale al “disturbo” ma fa riferimento a delle caratteristiche di personalità che, prese singolarmente, non causano un quadro disadattivo e rigido. Tra queste caratteristiche vediamo:

  • Bassa autostima
  • Ridotto senso di auto-efficacia
  • Paura del rifiuto
  • Preoccupazione per le critiche altrui
  • Paura di essere derisi
  • Spiccata permalosità
  • Sensibilità alle critiche

Non solo, tra i fattori di vulnerabilità vi è una bassa soddisfazione personale e in particolare, una bassa soddisfazione in risposta alle attività svolte prima della pandemia.

Facendo un’analisi retrospettiva, possiamo dire che è più vulnerabile alla sindrome della capanna colui che non ha avuto modo di sviluppare la fiducia nelle proprie risorse.

Facciamo qualche passo indietro e arriviamo all’infanzia. Nel periodo post-natale, ognuno di noi è sottoposto a forti pressioni sociali.

A seguito della prima lallazione, ogni bambino subisce pressioni affinché possa imparare a parlare e a pronunciare le prime parole. Dalle pressioni per le prime parole passiamo alle frasi… dopo aver imparato a camminare ci viene chiesto di correre. Insomma, le richieste sociali, fin dalla nostra nascita, sono crescenti, aumentano di giorno in giorno e di anno in anno.

Quando tutte queste pressioni sono accompagnate dal giusto supporto emotivo e da un campo relazionale sicuro, il bambino svilupperà un ottimo senso di auto-efficacia. Imparerà a tollerare le pressioni vivendo tutte le successive richieste esterne come stimoli.

Al contrario, in mancanza del giusto supporto emotivo e di una zona di sicurezza (legame materno o con il care-giver di riferimento), il bambino sarà spaventato e inizierà a sentirsi sopraffatto dalle pressioni esterne. Senza un buon supporto, senza un’autentica accoglienza nel legame, il bambino si ritroverà solo in un mondo che frettolosamente avanza troppe richieste.

Analogamente, oggi, nell’uscire dalla nostra capanna ci vediamo catapultati in un mondo che frettoloso avanza troppe richieste. Percepiamo queste richieste sovradimensionate rispetto alle risorse che riteniamo di avere. Ecco che paura e ansia fanno capolino, ecco che si attivano le resistenze.

Come affrontare la sindrome della capanna?

Una terapia d’urto, in questo contesto, può solo aggravare i sintomi e sfociare in condizioni più serie come:

  • ansia
  • attacchi di panico
  • depressione
  • insonnia
  • sintomi psicosomatici

Costringersi a un ritorno alla realtà quando non ci si sente pronti di affrontare le molteplici pressioni sociali può essere solo controproducente. Cosa fare allora?

Un’esposizione graduale potrebbe essere la mossa giusta, iniziando con il reintrodurre quelle attività che prima della pandemia erano piacevoli.

Nel rispetto delle normative vigenti (e dei vari aggiornamenti), puoi ritornare alla realtà con i tempi dettati dalla tua emotività. Scandisci dei nuovi ritmi e gustati le inedite sensazioni che tali ritmi comportano.

Il disagio e lo stress del ritorno alla “nuova normalità” possono costituire aspetti importanti della tua vita ma puoi controbilanciarli introducendo o mantenendo le attività piacevoli scoperte in quarantena.

Anche i bambini, al pari degli adulti, possono sperimentare la sindrome della capanna, quindi è importantissimo affiancarli in modo attento in questa fase di re-inserimento nel mondo esterno.

Per concludere…

Vi lascio alla riflessione di una frase tratta dal libro “Il quadro mai dipinto” dello scrittore Massimo Bisotti  “…le cose le lasci andare per tantissimi motivi, non soltanto perché un sentimento muore, le lasci andare per la tua inadeguatezza, per codardia. Le lasci andare per insicurezza, per paura di rischiare ancora, o per non affrontare la fatica che comporta lo scendere a compromessi con la parte più rigida di noi.“

Ebbene, è ora che tu lasci andare tutte le tue paure, le tue incertezze, le tue resistenze… riprenditi il tuo posto nel mondo

Per evitare che il disorientamento e le resistenze dal ritorno alla realtà possano trasformarsi in sintomi d’ansia, di panico o sintomi depressivi, non esitare a rivolgerti a un terapeuta.

A cura di Ana Maria Sepe, Psicoanalista

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