Sono cresciuto senza amore: la lettera che ogni genitore dovrebbe leggere

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

Ci sono parole che non si dicono mai. Rimangono chiuse tra i denti, nascoste nei sospiri trattenuti, nei silenzi davanti allo specchio. Sono parole che un figlio non trova mai il coraggio di dire a un genitore, perché nessun bambino – anche quando diventa adulto – vuole ammettere che non è stato amato.

Eppure, oggi le scrivo. Le scrivo per me, per quel bambino che sono stato, e per tutti quelli che si riconosceranno in questa lettera. Le scrivo anche per te, che forse non ti sei mai reso conto del vuoto che hai lasciato.

La lettera che ogni genitore dovrebbe leggere

Cari genitori,
non so da dove cominciare. Forse dovrei iniziare da quando aspettavate qualcosa da me ancora prima che imparassi a camminare. Da quando mi guardavate con occhi pieni di aspettative, ma mai di tenerezza. Da quando capii, troppo presto, che per essere visto dovevo fare qualcosa, non bastava essere.

Ho passato tutta l’infanzia a chiedermi cosa c’era di sbagliato in me. Perché non sorridevi mai quando entravo nella stanza? Perché il tuo volto si accendeva solo quando facevo qualcosa di utile, mai quando avevo semplicemente bisogno di te?

L’amore che non c’è si sente forte. Non per la sua assenza. Ma per il freddo che lascia.
Non c’era un abbraccio prima di dormire. Non c’erano parole dolci al ritorno da scuola. C’era solo un’aria densa, fatta di doveri, di regole, di silenzi. Silenzi lunghi. Pesanti. Di quelli che fanno rumore dentro e si portano dietro per anni.

Avrei voluto dirti tante volte che mi faceva male. Ma tu eri troppo occupato a correggermi, a disciplinarmi, a mostrarmi “come si fa”. Così ho imparato a non disturbarti. Ho imparato a non piangere troppo, a non fare domande, a non chiedere mai nulla. E per sopravvivere, ho imparato anche a non sentire.

Ho imparato a nascondermi… anche da me stesso.

Da fuori sembravo un bambino normale. Magari anche educato, responsabile, maturo per la mia età. Ma dentro, ogni giorno, mi spegnevo un po’. Ero un figlio senza specchio, senza contenitore. Nessuno raccoglieva la mia tristezza. Nessuno si accorgeva della mia solitudine.

E la cosa più ingiusta è che io ti volevo bene. Nonostante tutto, ti cercavo. Ti cercavo con lo sguardo. Con quei piccoli gesti che solo un bambino conosce: disegni lasciati sul tavolo, frasi scritte nei compiti, piccoli regali fatti con le mie mani.

Ma tu non vedevi. O non volevi vedere.

Quando non si è amati, si comincia a pensare di non meritare amore.
È questo il veleno più lento e più potente che un’infanzia senza amore lascia. Non il dolore – quello passa. Ma l’idea che il problema sei tu. Che sei troppo, o troppo poco. Che sei difficile da amare. Che, forse, se ti sforzassi di più, se fossi più bravo, più silenzioso, più tutto… allora potresti guadagnarti un po’ di attenzione.

Questa idea si attacca alla pelle. Cresce con te. Ti insegue. Diventa il modo in cui scegli le persone. Ti ritrovi a rincorrere chi non ti vuole. A giustificare chi ti ferisce. A pensare che l’amore sia una guerra da vincere, non una casa in cui riposare.

Eppure io non ti odio. Non ce la faccio.

Mi sono chiesto tante volte perché non riesco ad arrabbiarmi davvero con te. Forse perché nel fondo più profondo del mio cuore, una parte di me spera ancora in uno sguardo diverso. In una carezza in ritardo. In un “mi dispiace” che non arriverà mai, ma che io continuo ad aspettare.

Lo so che anche tu sei stato figlio. Che forse anche tu non sei stato amato come avresti voluto. Forse ti hanno insegnato che amare significa correggere, costruire, educare. Forse nessuno ti ha mai detto che l’amore è anche silenzio che accoglie, braccia che non spiegano ma abbracciano, occhi che non giudicano ma vedono.

Ti perdono, anche se fa male.

Ma adesso tocca a me scegliere chi voglio essere.
Sono cresciuto senza amore, sì. Ma non sono finito. Non sono rotto. Sono una persona che ha imparato a vedersi da solo, a darsi quello che non ha ricevuto. E, ogni giorno, sto imparando a credere che non devo essere perfetto per essere degno d’amore.

Non voglio trasmettere ad altri la fame che mi ha accompagnato per anni. Voglio interrompere il ciclo. Voglio imparare a dare a me stesso quello che tu non hai saputo darmi. E, se un giorno avrò un figlio, non voglio guardarlo con lo sguardo vuoto che avevi tu. Voglio vederlo. Anche quando non fa niente. Anche quando è solo sé stesso.

Ci sono figli che guariscono il dolore che hanno ereditato

Non lo fanno per vendetta. Non lo fanno nemmeno per orgoglio. Lo fanno perché dentro di loro, nonostante tutto, è rimasta accesa una scintilla. Piccola, fragile, ma viva. È quella scintilla che li spinge a chiedersi: “E se io fossi amabile, anche così?”.

Io quella domanda me la faccio ogni giorno. A volte ci credo, altre volte no. Ma continuo a farmela. Perché ogni volta che la pronuncio, è come se una piccola crepa si aprisse nel muro. E da quella crepa entra luce.

A chi legge questa lettera, voglio dire una cosa sola:

  • l’amore non è una ricompensa. Non si dà a chi lo merita. Si dà perché l’altro esiste. Perché è vivo. Perché ogni bambino – anche quello che sbaglia, anche quello che urla, anche quello che si chiude nel silenzio – sta solo cercando di essere visto.
  • Se sei genitore, non aspettare che tuo figlio faccia qualcosa per amarlo. Guardalo adesso. Ascoltalo adesso. Perché ogni giorno che passa, qualcosa dentro di lui si forma. E se non è l’amore a formarlo, sarà la mancanza.
  • Se sei un figlio come me, non sentirti sbagliato. Non sei stato tu a mancare. Sei stato solo troppo piccolo per portare sulle spalle il freddo degli adulti.
  • E ora che sei grande, non devi più portarlo. Puoi posarlo a terra. E cominciare a costruirti uno spazio tutto tuo. Un amore che nasce da dentro. Da te.

Post scriptum al bambino che ero:

mi dispiace che tu abbia dovuto imparare così presto a cavartela da solo. Mi dispiace che tu abbia pensato, anche solo per un secondo, che non eri abbastanza. Voglio dirti, con tutta la voce che oggi ho: tu eri degno d’amore, esattamente così com’eri. Non lasciarti più convincere del contrario.

Quando le parole guariscono

Questa lettera non è solo una confessione. È un ponte. Tra ciò che siamo stati e ciò che possiamo diventare. Tra il dolore taciuto e la possibilità di trasformarlo in forza.

Scrivere ciò che non abbiamo mai avuto il coraggio di dire è un atto di guarigione. Un modo per chiudere il cerchio. Per mettere parole dove c’erano solo ferite. E, soprattutto, per iniziare a scegliere chi vogliamo essere, a prescindere da chi non ha saputo amarci.

Perché l’amore che ci è mancato non definisce il nostro valore. Ma può, se lo permettiamo, diventare il punto da cui ricominciare.

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