Ti capita che a pelle una persona ti stia antipatica? Ecco la spiegazione psicologica

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

Ci sono incontri che non lasciano traccia, altri che accendono scintille. E poi ce ne sono alcuni che, inspiegabilmente, ci infastidiscono sin da subito. Non hanno fatto nulla di sbagliato, non ci hanno mancato di rispetto, eppure… qualcosa in loro ci stona. Ci irrita. Non riusciamo a fidarci, a rilassarci, a essere noi stessi. Ci sono persone che ci risultano sgradevoli “a pelle”, e spesso ci sentiamo quasi in colpa per questa impressione. “Forse sto giudicando troppo in fretta”, pensiamo. Ma quel senso di disagio non se ne va. E allora ci chiediamo: perché?

Questo tipo di reazione non è banale, né superficiale. Al contrario, affonda le radici in profondi meccanismi psichici ed evolutivi. Non è solo una questione di carattere o simpatia: è la nostra mente inconscia che, come una sentinella invisibile, rileva segnali sommersi, mette in moto antichi schemi di protezione e ci fa sentire un campanello d’allarme.

Questo articolo è dedicato proprio a queste antipatie “a pelle”, a ciò che evocano dentro di noi, a quello che raccontano della nostra storia, dei nostri vissuti, delle nostre ferite irrisolte. Perché sì, anche un’antipatia può essere una finestra su ciò che portiamo dentro.

1. L’inconscio fiuta ciò che la coscienza non vede

Secondo la psicoanalisi, l’inconscio è sempre attivo, anche quando la nostra mente razionale è distratta. Anzi, proprio nei primissimi istanti di un incontro, è l’inconscio a entrare in gioco per primo. È come se ci dicesse: “Fermati. Questo volto, questo tono di voce, questa espressione… qualcosa non va.”

Freud definiva l’inconscio come una realtà viva e pulsante, che trattiene ricordi, emozioni e impressioni passate, anche quelle che abbiamo rimosso perché troppo dolorose o disturbanti. Quando incontriamo una persona che ci risulta antipatica a pelle, non stiamo giudicando lei, ma una memoria emozionale che in lei viene riattivata. Quella persona può assomigliare – per tratti fisici, gesti, inflessioni – a qualcuno che in passato ci ha feriti, umiliati, ignorati. Oppure può esprimere, anche inconsapevolmente, un modo di essere che ci è stato vietato o che ci fa paura.

Ci infastidiscono spesso le persone che ci mettono in contatto con qualcosa che abbiamo represso: la loro eccessiva sicurezza, la loro fragilità, il loro sarcasmo o la loro eccessiva disponibilità possono riattivare dinamiche che ci toccano in profondità, anche se non ne siamo consapevoli.

2. Le antipatie come specchi: il concetto di proiezione

Molto spesso, l’antipatia istintiva nasce da una proiezione. In psicologia analitica, la proiezione è un meccanismo di difesa attraverso cui attribuiamo agli altri parti di noi stessi che non riconosciamo o non vogliamo accettare.

Quando qualcuno ci urta “a pelle”, potrebbe stare incarnando qualcosa che in realtà ci appartiene. Ad esempio: una persona che parla troppo e ha bisogno costante di attenzioni può infastidirci se abbiamo appreso, magari da piccoli, che “non si deve disturbare” o che “non bisogna mai essere un peso”. In questo caso, quell’antipatia è un indizio prezioso: ci parla di un nostro conflitto interno, tra il bisogno di visibilità e il timore di essere rifiutati.

L’antipatia è allora come uno specchio deformante: vediamo l’altro, ma riflette una parte nascosta di noi. Jung diceva: “Tutto ciò che ci irrita negli altri può portarci a una migliore comprensione di noi stessi.” Ecco perché vale la pena fermarsi ad ascoltare quel disagio, piuttosto che scacciarlo.

Temiamo ciò che potremmo diventare: l’antipatia come difesa identitaria

C’è un altro aspetto ancora più sottile e potente da considerare: a volte, una persona ci è antipatica perché rappresenta qualcosa che noi stessi temiamo di diventare. Non è solo una questione di somiglianza con qualcuno del passato, ma di ciò che quella persona attiva rispetto alla nostra identità.

Un esempio? Possiamo provare antipatia verso una persona trasandata, perché dentro di noi alberga una paura segreta di perdere il controllo, di non riuscire a tenerci “in ordine”, di lasciarci andare. Oppure verso una persona sovrappeso, se da bambini abbiamo interiorizzato l’idea che quel corpo veniva escluso, deriso o colpevolizzato. In questi casi, l’antipatia non nasce da chi l’altro è, ma dal timore di non essere più ciò che ci protegge dall’esclusione.

La nostra psiche si difende dall’insicurezza sociale sviluppando un “ideale dell’Io” molto preciso, che ci dice come dobbiamo apparire per essere amati. Tutto ciò che si allontana da questo ideale – negli altri ma, soprattutto, potenzialmente in noi – viene percepito come minaccia e generatore di disagio.

L’antipatia può quindi essere una reazione difensiva verso chi ci mostra l’abisso della vulnerabilità sociale: la paura di non essere desiderabili, accettati, integrati. In fondo, ogni giudizio automatico contiene il seme di una paura più profonda: e se fossi io quella persona che tutti evitano?

Il cervello sociale e la valutazione automatica dell’altro

Anche le neuroscienze hanno molto da dire sul perché “a pelle” ci sentiamo attratti o respinti da qualcuno. Il nostro cervello è costantemente impegnato in valutazioni rapide, automatiche, istintive. In una frazione di secondo, giudica se una persona è affidabile, minacciosa, simile a noi o distante.

Un ruolo cruciale lo gioca l’amigdala, la nostra centralina delle emozioni. Si attiva ogni volta che percepiamo un rischio – anche minimo, anche simbolico. E il rischio non è solo fisico: è sociale, emotivo, relazionale.

Il neuroscienziato Joseph LeDoux ha dimostrato che l’amigdala può reagire prima ancora che il nostro cervello razionale abbia elaborato coscientemente il volto o la voce di una persona. Questo significa che ci sentiamo a disagio prima ancora di capire il perché.

Inoltre, il cervello utilizza delle “euristiche”, ovvero scorciatoie cognitive, per risparmiare energia. Se qualcuno ci ricorda – anche solo vagamente – una persona negativa del nostro passato, tendiamo a estendere quel giudizio anche al nuovo individuo, innescando un processo di generalizzazione.

Il corpo non mente: la memoria somatica e l’istinto

A volte l’antipatia è sentita più nel corpo che nella mente. La pancia si stringe, il cuore accelera, le spalle si irrigidiscono. È come se il corpo si ricordasse qualcosa che la mente ha dimenticato.

Secondo il trauma somatico, teorizzato da Peter Levine, molte delle nostre reazioni più viscerali non nascono da una valutazione logica, ma da una memoria corporea. Il nostro sistema nervoso autonomo, abituato a registrare ogni segnale di pericolo, può reagire a un volto o a un tono in modo immediato e difensivo.

In questi casi, la persona che ci infastidisce “a pelle” non ha necessariamente fatto nulla di sbagliato. Ma il nostro corpo ha interpretato la sua presenza come una potenziale minaccia, sulla base di un pattern sensoriale simile a esperienze precedenti. È come se il corpo dicesse: “Attento. Questo ricorda qualcosa che ti ha fatto male.”

Non è colpa tua, né colpa sua: l’antipatia come informazione, non come verità

Un punto importante da chiarire: sentire antipatia per qualcuno non significa che quella persona sia cattiva o tossica. E nemmeno che tu sia giudicante o chiuso. Il disagio che provi è un’informazione. È un segnale. Non è una verità assoluta sull’altro, ma una verità momentanea sul tuo mondo interiore.

L’antipatia può segnalare che sei entrato in un campo emotivo delicato, in cui si attivano difese, paure o ricordi antichi. Può indicare una parte di te che non è ancora guarita o che ha bisogno di essere accolta. Può essere lo specchio di qualcosa che hai imparato a reprimere per sentirti accettato. Accogliere queste sensazioni senza giudicarle è già un passo verso l’ascolto profondo di sé.

Quando l’antipatia è giustificata: i segnali del tuo intuito

Non tutte le antipatie sono frutto di traumi o proiezioni. A volte, il nostro istinto coglie davvero segnali reali di pericolo relazionale. Microespressioni, incongruenze, mimiche forzate, sorrisi che non arrivano agli occhi… sono tutti indizi che il nostro cervello registra senza che ce ne accorgiamo. Il nostro “radar” sociale, sviluppatosi nel corso dell’evoluzione per sopravvivere in gruppo, è in grado di rilevare comportamenti manipolatori, atteggiamenti passivo-aggressivi, competitività nascosta.

In questi casi, l’antipatia non è solo un’eco del passato, ma una lettura intuitiva del presente. Imparare a distinguere quando il disagio è una tua proiezione e quando è una tua intuizione richiede pratica, consapevolezza e molta gentilezza verso se stessi.

L’antipatia come bussola dell’anima

Essere infastiditi da qualcuno senza una ragione apparente può farci sentire confusi o persino in colpa. Ma se impariamo a interpretare queste sensazioni come segnali e non come condanne, allora l’antipatia smette di essere una reazione da reprimere e diventa una bussola emotiva.

Ogni antipatia “a pelle” ci racconta qualcosa. A volte ci mostra le nostre ferite ancora aperte, altre volte ci protegge da relazioni potenzialmente tossiche. E a volte, ci costringe a guardarci dentro. Come ogni emozione scomoda, anche l’antipatia può essere un’occasione di crescita. Può insegnarci a conoscere meglio i nostri confini, a distinguere il passato dal presente, a riconoscere le parti di noi che abbiamo lasciato in ombra.

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A cura di Ana Maria Sepe, psicologo e fondatrice della rivista Psicoasvisor
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