Come pedagogista e psicologo ho sempre cercato di integrare le pratiche bioenergetiche orientali (Qigong, Tai Ji, ecc. ) e le pratiche meditative (soprattutto dinamiche) al fine di riuscire a volgere lo sguardo e gli altri sensi negli anfratti più profondi del proprio “sentire in divenire”.
Se è vero che educare deriva da e-ducere (tirar fuori), forse dovremmo far nostra la lezione del Buonarroti in cui la scultura si fa per via del togliere e non dell’aggiungere, in modo da liberare ciò che già c’è, l’autentico, dalla prigione della pietra.
Lo stesso credo che valga per le pratiche bioenergetiche e meditative che, senza aggiungere nulla, contribuiscono a far emergere progressivamente la dimensione più umana dell’essere, spesso soffocata dalle de-formazioni, frutto delle influenze esterne diseducanti che non fanno altro che allontanare l’uomo dall’essere se stesso.
La forza di queste pratiche sta nella loro insita tendenza ad innescare processi auto-formativi che, per certi versi, si fanno auto-terapeutici.
Togliere ciò che non è essenziale per trasformarsi
Il lavoro quotidiano su se stessi attraverso l’impegno nella respirazione, nella visualizzazione e nella gestualità è il medesimo di quello operato dallo scultore attraverso l’uso dello scalpello: togliere l’inessenziale, ovvero il de-formante, affinché ciascuno possa trovare la propria forma, ovvero l’autenticità del proprio personale formarsi.
E’ attraverso il percorso formativo che la persona sperimenta il trasformarsi, ovvero il processo incessante che, se orientato verso il personale acquisire forma, si fa crescita personale.
Queste pratiche si fanno ad un tempo educative perché tendono a far emergere l’autenticità del proprio essere-nel – mondo ma anche auto terapeutiche perché tendono ad eliminare le deformazioni condizionanti che, allontanando il soggetto da se stesso, lo alienano facendolo divenire altro da sé.
Dall’essere indeterminato al senso di determinatezza
Passare dall’indeterminato al senso di determinatezza significa riuscire in qualche modo a superare il senso del malessere formativo ovvero la capacità di abbandonare il senso di smarrimento attraverso l’integrazione dell’identità soggettiva e della differenza rispetto all’altro-da-sé.
Lo scopo dell’esercizio incessante delle diverse pratiche meditative, credo sia da rintracciare anche nella necessità di riscoprire la personale stenìa, ovvero la capacità di avvertire dentro se stessi la forza necessaria per condursi dalla de-formazione alla formazione, ossia verso quella capacità di donazione di senso alla realtà esperita grazie all’acquisizione del senso di sé, inteso come baricentro esistenziale.
Smarrire il proprio baricentro o perdere il senso il senso di sé coincide con la percezione della perdita di vitalità e l’incremento dell’apatia esistenziale, ecco perché queste discipline non possono che essere anche preventive, nel senso che riescono ad attivare nel praticante una sorta di “illuminazione del sé”, intesa come significazione dei processi deformativi e diseducativi che tendono ad allontanare l’individuo dall’essere autenticamente se stesso (Sola G., Il Melangolo, Genova, 2008).
Essere o avere? La mania del possedere per apparire
Oltre ad eliminare le tendenze inautentiche e deformanti, le pratiche bioenergetiche e meditative aiutano il soggetto a riscoprire e ad integrare gli aspetti relativi all’essere-uomo attraverso l’essere in formazione, ovvero a scoprire che il fine di tutto il processo è l’affrancamento dal ruolo di soggetto oggettualizzato, schiavo del denaro, dell’apparire e del possedere.
La trasformazione del soggetto attraverso le pratiche bioenergetiche e meditative consiste allora nel prevenire l’allontanamento dalla forma originaria di sé che porterebbe inevitabilmente alla nientificazione, ovvero allo smarrimento del soggettivo senso dell’umano.
La perdita del personale assetto formativo crea il senso del malessere esistenziale e l’allontanamento dal progetto di essere autenticamente se stessi. Da questa semplice premessa nasce la necessità per il praticante di discipline meditative e bioenergetiche di auto-interrogarsi costantemente al fine giungere ad una approfondita conoscenza dello stato de formativo in cui si trova.
La pratica del chiedersi e domandarsi circa il proprio sentirsi, nel qui ed ora, all’interno della cornice della pratica esperita, porta alla sensibilizzazione del sentire se stessi e a donare senso al proprio umano tendere. Il senso del divenire e del trasformarsi nel personale mettersi in gioco porta costantemente a decostruire e ricostruire la propria realtà formativa al fine di interpretarla e decantarla secondo criteri ed ottiche inedite, in grado di donare un assetto diverso al proprio abituale esperirsi.
Il lavoro bioenergetico
Ecco perché nelle sessioni di lavoro bioenergetico propongo sempre le pratiche dello stare in piedi, del tirare, dello spingere, del sollevare, torcere, lasciare, prendere, allontanare, ecc., in modo che successivamente ognuno attribuisca al proprio agire significati personali specifici, ancorati ad esperienze relative a vissuti carichi emotivamente in cui desideri, delusioni, traumi e paure trovino una legittima espressione.
Le pratiche proposte non sono mai un fine in sé ma un mezzo per liberare la dimensione umana soggettiva dalle resistenze caratteriali i cui blocchi sono dettati dai traumi irrisolti delle esperienze trascorse.
Il dialogo con il corpo diventa la scusa necessaria per permettersi di affrontare discussioni con se stessi altrimenti impossibili.
E nel grande teatro del corpo c’è posto per tutti gli attori: la vergogna che vuol essere la protagonista, la paura che vorrebbe chiudere il sipario, la rabbia che vorrebbe dar fuoco alle scene, la gioia che cerca di coinvolgere il pubblico, ecc.
La validazione delle emozioni emerse e la loro legittimazione consentono in qualche modo di aprire le porte alla sincerità verso se stessi e a superare il muro della vergogna.
L’ego con il suo arroccamento non trova più motivo per continuare nel proprio irrigidimento e lentamente le difese si abbassano.
E’ qui che il praticante può cogliere l’occasione per incontrarsi e trasformarsi.
Le pratiche sono occasioni, possibilità per far sì che qualcosa accada.
E’ nell’accadimento che può accendersi il fuoco di un nuovo divenire. Sta al praticante darsi questa possibilità accettando la sfida di stare in un presente da cogliere. Qui entra in gioco la capacità e il desiderio di riuscire ad essere presenti a se stessi, sfuggendo dalla tentazione di rinchiudersi nei pensieri o nelle preoccupazioni. L’impossibilità di cogliere, ovvero di sentire il come e il quando agire attraverso il gesto, la voce o lo sguardo, indica il lavoro ancora da fare per celebrare se stessi ed il proprio divenire.
A cura di Andrea Guerrini, psicologo e pedagogista
Se ti è piaciuto questo articolo puoi seguirci su Facebook: Pagina ufficiale di Psicoadvisor o sul nostro gruppo “Dentro la psiche“. Puoi anche iscrivervi alla nostra Newsletter. Per leggere tutti i miei articoli ti invito a visitare questa pagina