Il cibo, un mezzo per alleviare le ferite dell’anima

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Certamente sarà capitato a molti di sperimentare, in alcuni momenti della vita, quell’impellenza di mangiare pur non avendo fame e alimentarsi per ragioni che esulavano dal nutrimento in sé. Chi, per sua fortuna, ha un rapporto sereno con l’alimentazione gli riesce difficile capire il concetto di fame emotiva.

Chi invece non riesce ad approcciarsi stabilmente e in modo equilibrato con il cibo sa bene di dover fare i conti con quella morsa che arriva allo stomaco, quel buco nero che si apre all’improvviso, quella voglia smisurata che si avverte nella bocca, nella gola” che lo spinge inconsapevolmente verso il frigorifero, le dispense o addirittura ad andare al supermercato, per soddisfare il suo bisogno impellente di cibo.

Quella voglia smisurata di cibo

Rispetto alle cause, il cibo può diventare una sostanza da cui dipendere psicologicamente quando è vissuto o percepito come valvola di sfogo, come rifugio o come sostanza analgesica contro le sofferenze vissute durante la giornata, o contro situazioni di disagio o di conflitto. Pertanto stati d’animo come ansia, depressione, stress, inibizione emotiva possono influire sul rapporto con il cibo e causare un aumento di peso.

Spesso il cibo non è gustato, ma ingurgitato per riempire in fretta un opprimente senso di vuoto interiore, confuso con la sensazione di fame vera e propria. Mangiare, o meglio abbuffarsi, allora, può diventare, in mancanza di altre possibilità espressive, l’unica risposta indiscriminata a difficoltà affettive ed emotive.

Il cibo può compensare un’affettività carente o non gratificante, può placare un’aggressività non altrimenti esternata, può attenuare momentaneamente stati d’ansia o sintomi depressivi, può consolare da delusioni, fallimenti o eventi traumatici (come lutti, separazioni…). Spesso la rabbia, la tensione, la noia ed altre emozioni sono confuse con la fame.

Da dove nasce quella voglia di gratificarsi attraverso il cibo

Le origini di quanto descritto possono essere rintracciate nel tipo di relazione instaurato tra il bambino e le prime figure di attaccamento, relazione che viene mediata anche dalle modalità con cui viene curato l’aspetto alimentare. Un tratto comune delle madri  con figli con problemi di obesità è proprio quello di aver imposto al figlio il proprio concetto rispetto a quelli che sarebbero stati i suoi bisogni.

Se la madre nutre il bambino sulla base di propri convincimenti quali, ad esempio, quello secondo cui un bambino grasso è un bambino bello e sano, o quello secondo cui il cibo deve essere fornito secondo precisi schemi in termini di quantità, qualità e orari, questa madre non tiene conto delle effettive e fisiologiche esigenze del piccolo, perciò con il tempo il bambino, avendo difficoltà a percepire lo stato interno di bisogno e di desiderio, comincerà a nutrirsi dipendendo da segnali e fattori esterni.

Può accadere inoltre che la madre sia distante affettivamente dal bambino pur essendo molto presente rispetto al suo compito o ruolo. Il bambino può allora percepire il cibo come surrogato dell’affetto e, diventato adulto, potrà assumerlo con questa stessa valenza: le emozioni vengono canalizzate solo attraverso il cibo e l’elaborazione psichica del disagio è sostituita dalla gratificazione che proviene dalle sensazioni corporee.

Predisposizione all’obesità

Anche la presenza di un forte legame di tipo simbiotico con la madre durante l’infanzia può essere un fattore di predisposizione all’obesità. Il vincolo di dipendenza del bambino alla madre, inizialmente funzionale alla sopravvivenza del piccolo, se non viene sostituito da progressivi processi di separazione ed individuazione, che segnano la crescita psicologica dell’individuo in termini di autonomia, non lascia al bambino lo spazio sufficiente per diventare psicologicamente maturo e un individuo indipendente.

Spesso il bambino è considerato un bene prezioso a cui si debbono le cure migliori ma nello stesso tempo non gli viene riconosciuta la propria individualità. Non solo, ma in questo modo il bambino non è in grado di affrontare e tollerare le frustrazioni; pertanto in futuro potrà avere delle difficoltà a procrastinare il soddisfacimento di un bisogno, che invece è una capacità tipica della persona adulta e psicologicamente matura.

Evitando generalizzazioni, comunque, occorre sottolineare che le dinamiche che entrano in gioco nel predisporre all’obesità sono altamente soggettive, e anche il riferimento alle prime esperienze infantili acquista un certo spessore e significato solo se ci si riferisce a modelli di relazione fra il bambino e le sue figure di attaccamento che risultino in modo reiterato poco funzionali, incoerenti o incostanti.

Per quanto concerne le conseguenze psicologiche dell’obesità, spesso si assiste ad una dispercezione relativa al senso di fame e di sazietà, e soprattutto rispetto alle proprie dimensioni corporee, che nella maggior parte dei casi vengono sottostimate rispetto alla realtà. Sensi di colpa, sintomi depressivi e bassa autostima sono i principali disagi psicologici riscontrabili nel soggetto obeso

I sintomi depressivi possono derivare dall’incapacità di osservare un rigido regime alimentare unita allo sperimentare numerosi fallimenti. Il vissuto depressivo può risultare così significativo da interferire con la qualità della vita dell’individuo nel suo insieme, ed il probabile utilizzo del cibo come “antidepressivo”, tipico di chi è in sovrappeso, non fa che peggiorare pesantemente la situazione.

La bassa autostima è riscontrabile nella misura in cui questi individui tendono a sovrastimare l’apparenza corporea, riponendo nel raggiungimento di una migliore forma fisica irrealistiche aspettative di affermazione personale e consenso sociale.

Il circolo vizioso: frustrazione\disagio psicologico + cibo = sollievo

Durante l’evoluzione della malattia, inoltre, l’obeso può perdere progressivamente la propria autostima a causa dei possibili fallimenti nei tentativi di perdita di peso, e ciò lo porta a stigmatizzare eventuali trasgressioni favorendo l’insorgere e il consolidamento dei sensi di colpa. Si innesca così un circolo vizioso frustrazione\disagio psicologico + cibo= sollievo per cui il soggetto alterna momenti di restrizione alimentare con altri di perdita di controllo, con lo sviluppo di pensieri e comportamenti che perpetuano l’obesità.

Portare alla luce i propri traumi nascosti, le proprie ferite, i vissuti abbandonici, e la propria storia personale potrebbe favorire la costruzione di una modalità di utilizzo del cibo più sana.Potrebbe inoltre favorire l’acquisizione di nuove abilità personali e strategie di compensazione che interrompano il circolo vizioso appreso

Cosa fare per interrompere il circolo vizioso della fame emotiva

Il primo passo per interrompere la fame emotiva è la consapevolezza e pertanto apprendere a distinguere la fame fisica da quella emotiva.

In tal senso può essere utile: chiedersi “sto mangiando per un reale bisogno fisico o per uno stato d’ansia, un abbassamento dell’umore?” e tenere un diario dove annotare cosa e quando si mangia, quali eventi abbiamo vissuto, cosa abbiamo provato e con chi ci trovavamo. È utile segnare il cosa si prova prima di divorare un cibo e cosa si prova dopo averlo fatto. Ciò può aiutarci a rintracciare i motivi che spingono verso il cibo, le emozioni che si provano e i bisogni che si tenta di soddisfare.

È importante inoltre riflettere sui significati che il cibo riveste, cosa ha rappresentato nella nostra storia e cosa rappresenta nei legami che viviamo. Se il cibo viene utilizzato per compensare o riparare stati emotivi intollerabili allora si può cercare di individuare altre azioni che si possono mettere in atto per gestire l’ansia e l’umore.

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1 commento su “Il cibo, un mezzo per alleviare le ferite dell’anima”

  1. Se volessi citare questo articolo, avrei bisogno dell’autore, ma non riesco a trovarlo. Vi suggerisco di specificarli.
    Elisabetta

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