La genitorialità non è una condizione ma un’assunzione di ruolo. Troppe critiche e consigli giudicanti. Come psicologo e pedagogista mi capita sempre più spesso di confrontarmi con i genitori e le difficoltà che incontrano nell’educazione dei figli e, in maniera più o meno indiretta, con le incomprensioni o i diversi punti di vista del partner.
Quello che più mi colpisce è l’attuale tendenza a vivere il ruolo di genitore come una “sindrome”, una condizione problematica che deve essere in qualche modo analizzata, sezionata e classificata per poter intervenire clinicamente e risolvere così la criticità avvertita. Sì la genitorialità rientra nella sfera della problematicità, dell’equilibrio sempre instabile, dell’incomprensione che si fa motore e spia per attivare un cammino verso una condizione sempre migliore e stabile.
Genitore: tra ascolto empatico dei bisogno del bambino e l’auto-ascolto dei propri bisogni
L’attività genitoriale rientra nella sfera relazionale e, come tale, risente di tutti gli aspetti di questa delicata sfera:
- riconoscimento di ruolo,
- posizione all’interno della dinamica,
- regole da negoziare,
- analisi dei bisogni,
- capacità di lettura dei confini personali,
- capacità di autolettura da un punto di vista emotivo.
La relazione genitoriale, in quanto appunto relazione, prevede un continuo centramento e decentramento, nel senso che l’adulto è chiamato ad ascoltare se stesso e ciò che gli accade nel momento di scambio e confronto con il figlio e ad uscire da sé, “mettendosi fra parentesi” momentaneamente per meglio cogliere ed accogliere ciò che l’altro vuol comunicare o tacere.
Si tratta quindi di ascolto empatico da una parte ma di necessità di autoascolto dall’altra differenziando bene ciò che l’adulto sente ed appartiene a lui da ciò che l’altro vuole far capire di sé o che in qualche maniera tace e nasconde.
Per il bene del bambino devi… o non devi…
Il gioco relazionale è molto complesso e non può mai tradursi e ridursi in un semplice vademecum di comportamenti da tenere. Per molti genitori è frustrante sentirsi dire cosa debbono o non debbono fare, piegarsi ai punti di vista dei tanti, troppi consiglieri dell’educazione che in nome di un teorico “per il bene del bambino”, dimenticano il vissuto del genitore e tutte le sue risonanze emotive. I genitori devono, occorrerebbe che non facessero, dovrebbero smettere di, ecc. I genitori sbagliano quando, fanno bene invece se, ecc.
Nonostante le migliori intenzioni dei consiglieri, purtroppo, questa tendenza pedagogico-precettistica non fa altro che alimentare nell’adulto un forte senso di inadeguatezza, frustrazione e vergogna. Sentirsi giudicati e inadeguati non porta a nessun auto-miglioramento e soprattutto fa sorgere una domanda: chi ti autorizza a dirmi cosa fare? Cosa ne sai di come mi senta io?
La realtà educativa è dinamica
La relazione genitoriale è difficile e complessa e come tale va accettata. Non esistono regole granitiche da adottare perché la realtà educativa è dinamica, aperta e complessa e non può essere affrontata con un prontuario statico, chiuso e semplicistico. I genitori possono fare un sospiro di sollievo.
Il compito è arduo e la bacchetta magica, con buona pace dei consiglieri, non ce l’ha nessuno.
Se non esistono regole universali ci sono princìpi che possono essere utilizzati però come guida e spunti di riflessione.
1. La conflittualità fa parte del gioco
La relazione fra genitori è figli è sempre asimmetrica ed è normale che si entri in conflitto. I figli fanno il loro lavoro, ovvero provocano, cercano di sfondare gli argini, di aggirare gli ostacoli.
La conflittualità fa parte del gioco e non è un male da estirpare. Saper stare nel conflitto significa saper negoziare, capire il punto di vista dell’altro, ridefinire i confini, anche in relazione all’età raggiunta dal figlio.
Qui è importante capire che il genitore ha la possibilità di interrogarsi su come stia nel conflitto, cosa gli attivi da un punto di vista emotivo il disaccordo e quali reazioni gli provochino. In pratica occorre capire se il proprio modo di attivarsi è funzionale o meno, se consente nuove aperture oppure se provoca chiusure ed incomprensioni.
E’ attraverso queste riflessioni, condivise con l’altro genitore che è possibile auspicare ad un cambiamento più favorevole.
2. Il tempo trascorso con i figli è una questione di qualità e non solo quantità
Come trascorro il tempo con il o con i figli? E’ importante il come non il quanto. Il tempo lavorativo e degli impegni professionali, purtroppo, è sempre maggiore e non ha senso autoflagellarsi per questo. Portando l’attenzione sul come è invece più proficuo.
Riesco a giocare con mio figlio? So entrare nel suo mondo? Riesco a tenere una conversazione con lui, accettando i suoi punti di vista mettendo da parte, momentaneamente, il giudizio? Riesco a condividere con lui gli interessi che ha? Esiste un tempo che trascorro esclusivamente con lui? E se sì, come ci sto? Riesco a tenere l’attenzione sul momento presente o cerco di evadere distraendomi con il cellulare?
Sono tutte domande che aiutano il genitore a prendere consapevolezza del proprio stile educativo, di come stia realmente in relazione con proprio figlio e cosa provi realmente, in modo da capire se e cosa occorre cambiare per migliorare la relazione, chiedendosi se stia fuggendo da qualcosa.
3. Regole e bisogni
Le regole devono essere calate dall’alto o condivise? Quali sono i criteri da adottare? Premi o punizioni? Queste e molte domande nascono spontanee quando si ha a che fare con l’educazione, tuttavia, vale sempre il principio iniziale.
Una regola generale astratta non può cogliere e soddisfare una necessità specifica e concreta. All’interno di una relazione educativa si agitano molti fattori: problematiche più o meno risolte dei genitori (di ruolo), problematiche personali, di coppia e, non ultimo, i bisogni del o dei bambini.
Non essendo possibile appellarsi a duna regola infallibile occorre necessariamente far leva sull’unica dimensione possibile: se stessi ed il proprio ascolto.
Ascoltarsi è fondamentale per capire cosa ci accade e come reagiamo. L’impossibilità di accogliere i bisogni dei figli spesso deriva dall’impossibilità di farlo perché nella storia e nei vissuti di uno o di entrambi i genitori può darsi sia accaduto qualcosa di cui non sempre si è consapevoli.
Prestare ascolto a se stessi quando sentiamo di perdere la pazienza, quando sentiamo la necessità di non ascoltare ciò che ci viene detto o quando avvertiamo l’impulso di allontanarsi da una situazione di conflitto.
La bioenergetica come risorsa genitoriale
La bioenergetica può essere un valido strumento per cominciare a lavorare sul corpo, sul respiro e diventare consapevoli delle emozioni, imparando progressivamente a scongelare quelle intrappolate all’interno dell’armatura caratteriale che impediscono di sperimentare il piacere e la pienezza della vita.
Attraverso il lavoro corporeo è possibile andare ad eliminare tutte quelle tensioni interiori che tendono ad irrigidire le difese, ovvero ad attivare meccanismi comportamentali e atteggiamenti stereotipati, frutto di conflitti irrisolti che si attivano ogni volta che si presentano situazioni che consentono l’innesco.
Riconoscere in noi ciò che attiva comportamenti indesiderati, riconoscere le emozioni che ci agitano, saper individuare nel corpo cosa sentiamo quando una certa situazione si verifica nell’ambito familiare, è il primo passo per iniziare a fare dei cambiamenti. Occorre quindi partire da se stessi, dall’autoconsapevolezza e da ciò che risuona dentro di noi quando la relazione con l’altro ci attiva in modo da rendere più flessibili le difese e poter realmente essere in grado di ascoltare i bisogni dell’altro anche quando sono inespressi, di saper ascoltare in modo empatico e stringere un’alleanza migliore con il partner nel difficile mestiere dell’educare.
A cura di Andrea Guerrini, psicologo e pedagogista
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