Un concetto che mi ha sempre affascinato è quello di Massa Critica. Non saprei dirne esattamente il motivo. Sarà perché se penso alla mia infanzia la prima situazione di emergenza che ricordo bene è quella del disastro di Chernobyl, sarà perché l’astronomia mi ha sempre appassionato o forse per la mia formazione scientifica.
Semplificando il più possibile, questo termine in fisica nucleare fa riferimento alla quantità minima di alcuni elementi (ad esempio Uranio o Plutonio) sufficiente ad innescare e mantenere attiva una reazione a catena.
Un punto di trasformazione irreversibile che da quel momento cambia lo stato delle cose senza possibilità di tornare alla loro identica condizione precedente.
Mi ha anche sempre affascinato l’assoluta neutralità di queste Leggi, intrinsecamente avulse da qualunque principio e giudizio morale come Bene, Male, Giusto o Sbagliato. Tuttavia, non sono un fisico, ma uno psicologo, e se ho scelto questa professione è perché l’oggetto della mia passione è l’uomo e, soprattutto, il suo cervello.
È grazie a quest’organo che pieghiamo le Leggi neutre e le rendiamo non-più-neutre, dando loro una direzione: quando, nel secolo scorso, abbiamo capito come colpire con i neutroni gli atomi radioattivi instabili di Uranio, ne abbiamo fatto sia il più terribile strumento di morte, sia un combustibile per produrre energia elettrica.
Il concetto di Massa Critica in Psicologia
Se ci riflettiamo, il concetto di Massa Critica si applica tranquillamente alla psicologia (in realtà lo si è già fatto nell’ambito della Psicologia Sociale), basti pensare a tutti quei momenti nella vita che costituiscono un profondo passaggio di stato, di trasformazione del proprio mondo interiore. Una transizione dalla quale, una volta varcata la soglia, non esiste reversibilità.
Se questo è vero normalmente nel corso della vita, lo sarà tanto di più nei contesti di emergenza, durante i quali un evento critico può determinare l’innesco personale o sociale di una massa critica.
Prendiamo come esempio alcuni miei pazienti già in trattamento psicoterapico da prima di questa emergenza: che effetto ha avuto sulla loro psiche l’evento critico di questa pandemia? Ha (già) generato in loro una trasformazione irreversibile? E, se sì, in senso positivo o negativo?
Questa tipologia di pazienti a cui mi riferisco oggi è giunta in terapia portando caratteristiche prevalentemente ansiose: ansia generalizzata per alcuni, o disturbi da attacchi di panico per altri. Molti di essi hanno anche fobie specifiche e tratti ipocondriaci.
Nella fase iniziale del lockdown questi pazienti erano peggiorati. In alcuni miei pazienti con tratti di personalità evitante, per i quali l’inizio della quarantena era stata vissuta come una forte area di comfort ansiolitica, con conseguente paradossale automiglioramento percepito. Qui non si tratta di loro.
I pazienti che descrivo oggi hanno continuato la psicoterapia regolarmente durante la “fase1” del lockdown, tutti in modalità on-line, per scelta. Hanno sofferto, fin da subito o quasi, della condizione di isolamento forzato, tanto da riportare una ri-acutizzazione di vecchi sintomi ansiosi: sensazioni fisiche di “mancanza d’aria”, insofferenza, disturbi del sonno e dell’alimentazione, stanchezza fisica e mentale, abbassamento ciclico del tono dell’umore, attacchi di ansia, recrudescenza di vecchie fobie specifiche soprattutto in chiave ipocondriaca.
Nel corso dei due mesi trascorsi, attraverso il passare del tempo ed i colloqui di psicoterapia, sono riusciti a trovare una sorta di equilibrio, di adattamento alla “fase1”.
Come sospettavo, questo equilibrio si è rivelato molto più fragile di quanto immaginassero, al punto da incrinarsi al momento dell’iniziale, tanto agognata, libertà di uscire.
“Sono cinquantaquattro giorni che sto chiuso dentro casa, sono uscito pochissimo anche per fare la spesa… lo sa che semplicemente uscire dall’auto e venire qui in studio mi ha fatto venire il mal di mare?”
È stata una frase riportata da uno di questi pazienti appena visto dal vivo, che continua:
“Prima non vedevo l’ora di tornare in studio, poi già da l’altro ieri ho iniziato ad avere di nuovo angoscia… come all’inizio… stamattina ho avuto sensazioni di ansia molto forte e, se devo essere sincero, in questo momento non riesco a focalizzarmi sullo stare qui: penso solo a rientrare in auto e tornare a casa”.
Molti altri pazienti di questo tipo, durante la prima settimana di “fase2”, si sono allineati su queste caratteristiche: allarme ed ansia al pensiero di uscire, sensazioni di paura di essere contagiati, angoscia, rabbia, senso di estraniamento, confusione.
L’ansia da fase 2
Un aspetto interessante esplorato nei colloqui è stato proprio relativo al senso di confusione, che a volte ha sfiorato un senso di perplessa irrealtà.
Avevo già sentito quelle frasi accompagnate da tipiche espressioni facciali, toni di voce e posture e non mi è stato difficile ripescarne i ricordi: erano del 2009 e, i più recenti, del 2016.
Ho una formazione specifica in psicologia dell’emergenza, che mi ha portato a lavorare con vittime e soccorritori, sia nel sisma dell’Aquila, sia in quello che mi ha toccato molto da vicino nelle Marche del 2016.
Se ascolti una vittima del terremoto nelle 48 -72 ore dopo l’evento, non dimentichi quelle frasi e come ti vengono dette. Non parlo di vittime con ferite fisiche importanti o con perdite tra i loro cari, parlo della maggioranza di vittime semplicemente scappata dalla propria abitazione più o meno lesionata.
La differenza con queste testimonianze della “fase2”, per quello che ho sentito, è stata solamente nell’intensità dell’attivazione emotiva: un’intensità ovviamente maggiore per le vittime del sisma.
Per il resto, le reazioni quasi di shock sono state simili, soprattutto quando riportano il sentore di quell’aleggiante, ma per fortuna temporaneo, senso di perplessità. Un sentore che fa accendere molte lampadine di allarme in tutti gli psicologi clinici, visto che è un sintomo da non sottovalutare: è una sorta di momento in cui la persona in questione non è più in grado di leggere e di comprendere il mondo intorno a sé. Essa vede la realtà di sempre, ma il suo cervello la percepisce contemporaneamente un po’ estranea, o comunque sospesa.
In questo caso si sta predisponendo un innesco di Massa Critica nel proprio Io.
“Mi sono così tanto abituata a non avere contatto con le persone, che ora che sono tornata qui mi sento a disagio. Mentre camminavo per venire in studio ho notato che anche la mia postura era più chiusa e passavo molto alla larga dalle persone… non è per la paura del virus in sé, è che proprio mi fa strano!”, racconta questa paziente mentre mi guarda con gli occhi spalancati e tiene le sue braccia a proteggersi le spalle.
Per capirci: è come se fissate un quadro alla parete di casa vostra e avete la sensazione che oggi sia appeso leggermente storto, di pochissimo. Ma gli altri intorno a voi sembra che lo vedano dritto come sempre. Vorreste metterci le mani ma non funziona e vi sentite impotenti, inoltre gli altri continuano a dirvi di lasciar stare: “è dritto! È proprio così che dovrebbe essere!”. Come vi sentireste?
Paralizzati, rallentati, angosciati. È quello che sperimentano nelle prime ore le vittime dei disastri, uno stato di temporalità e di realtà sospesa, non più decifrabile. La ciliegina sulla torta è che siete coscienti che c’è qualcosa che non va, che il problema è vostro, ma in quel momento non riuscite a farci niente.
Per fortuna, superato questo stato di shock, la mente si ri-adatta a leggere la “nuova” realtà, le aree razionali e quelle emotive del sistema nervoso, magari, aiutate dal terapeuta, riprendono a dialogare tra di loro e la persona torna a vedere quel quadro senza storture.
Non è sempre così facile.
La prima reazione di questi pazienti non è stata quella di adattarsi al nuovo ma è stata l’immediata ricerca del vecchio: “io non ero ancora pronta! Da una parte vorrei tornare indietro alla quarantena…soffrivo per certe cose ma mi sentivo al sicuro! Adesso sembra peggio. Come si fa ad essere pronti a tutto questo?”.
Si fa iniziando a riflettere sul fatto che tutto questo in realtà è un tentativo di ritornare ad una vita come quella di meno di due mesi fa, ossia, se rimaniamo nell’ottica del paragone col sisma, a prima dell’evento traumatico.
Qui compaiono le vere sfide e vengono fuori ulteriori differenze tra i due eventi traumatici.
Una sfida lampante è prendere atto che, aldilà dell’evento critico oggettivo, esiste un soggettivo evento traumatico generato. In questo caso, l’evento critico oggettivo non è altro che la comparsa di un virus, per il quale attualmente non esiste cura, che attacca gli umani e ne può causare la morte.
L’evento traumatico soggettivo invece è molto variabile: cos’è che io percepisco come traumatico in questo momento? Il virus, l’isolamento, la perdita dei cari, l’incertezza del lavoro, la ripresa alla vita quotidiana, o cos’altro?
In base alla risposta soggettiva si creano ulteriori percezioni dell’evento, funzionali o disfunzionali, che vanno esaminate prima di intervenirvi. Vediamone due.
Reversibilità vs irreversibilità
Possiamo collocare la prima sull’asse reversibilità vs non reversibilità percepita dell’evento traumatico. Dopo aver subito un evento traumatico, ogni persona reagisce in modo diverso, e una delle prime valutazioni cognitive ed emotive che compie riguarda la percezione di reversibilità dell’evento stesso.
Esistono oggettivamente degli eventi traumatici da cui possiamo riemergere avendo poi la possibilità di ritornare esattamente allo stile di vita che facevamo in precedenza, senza alcuna modifica. Altri eventi si collocano all’esatto opposto e, altri ancora, sulla linea di questo continuum.
Facciamo degli esempi: una calamità naturale, come un sisma o un’alluvione, che ci ha fatto temere di perdere la vita o la nostra casa (magari danneggiandola) costituisce un evento traumatico reversibile, se non ha causato vittime.
La persona attraversa più o meno velocemente l’iniziale fase di shock, e, anche grazie alla prospettiva di poter ritornare alla vita precedente, supera il trauma. Più questa prospettiva appare incerta e lunga (immaginiamo, nel nostro esempio della catastrofe naturale, uno sciame sismico che continua nel tempo, magari unito alla burocrazia che non fa ricostruire la casa danneggiata, ecc.) e meno la persona sente di avere il controllo sul poter riprendere in mano la propria vita.
Se invece consideriamo altri eventi traumatici, quali un incidente che causa una menomazione o il COVID-19 che ci fa perdere una persona cara, ci troviamo oggettivamente di fronte ad eventi irreversibili: non si potrà tornare alla vita precedente esattamente per come la facevamo. In questo caso il superamento positivo del trauma va di pari passo all’accettazione di dover/poter aprire una nuova fase della propria vita. Un tipico esempio psicologico, per non addetti ai lavori, è quello che chiamiamo “rielaborazione del lutto”.
Se analizziamo finora questa pandemia sull’asse reversibilità-non reversibilità cosa notiamo?
Che innanzitutto, come dicevamo, l’evento scatenante la paura è soggettivo e non oggettivo. A tutti i miei pazienti ho chiesto in queste ultime settimane: “qual è la cosa che temi di più in tutto questo?”.
Le risposte sono diverse, generalmente tre: per la mia vita, per la vita dei miei cari che sono anziani, per il mio futuro lavorativo. La cosa interessante è che ciò che magari per una persona costituisce la principale fonte di angoscia (es. la perdita del lavoro) per un altro è totalmente indifferente.
Capiamo che questo costituisce una particolarità: variando soggettivamente la mia preoccupazione, cambierà più o meno oggettivamente la reversibilità delle conseguenze e muterà anche la percezione di controllo che posso avere sull’evento che più mi terrorizza.
Inoltre, l’assistere con senso di impotenza, alla fragilità delle Nazioni più ricche al mondo, alla comunità scientifica che fornisce eziologie, terapie e prognosi diverse, alle risposte contrastanti delle politiche sociali ed economiche, non fa altro che rafforzare nelle vittime di questo trauma una sensazione di continua incertezza, di confusione e di perdita di speranza che “tutto tornerà come prima”.
Chi è il responsabile di tutto questo?
La seconda percezione disfunzionale la collochiamo sull’asse del senso di responsabilità percepito, che ha come polarità la responsabilità interna vs esterna.
Questa potrebbe risolversi con la tipica domanda che la vittima del trauma pandemico si pone: “di chi è la responsabilità di tutto questo?”. Anzi, in questa seconda fase la questione è diventata: “di chi è la responsabilità del perdurare di tutto questo? O del dover ritornare al lockdown totale?”.
Abbiamo già visto tra i sintomi l’irritabilità e la rabbia. Sono situazioni, credo, familiari per la maggior parte di noi: chi non si è imbattuto almeno una volta, in questo periodo, in esplosioni d’ira al supermercato o in aggressività ed esasperazioni sui social network?
Siamo tutti vittime, in questo grande evento traumatico. Quanto più la nostra percezione dell’evento, in questo secondo continuum, si sposterà sulla polarità della responsabilità esterna, tanto più tenderemo ad attribuire ai comportamenti del prossimo la causa e la responsabilità delle nostre frustrazioni.
A quel punto non esisteranno più spiegazioni scientifiche: ormai la nostra rabbia avrà “sequestrato” tutto il bagaglio logico e razionale. Resterà solo un ipertrofico serbatoio di rancore ad alimentare il nostro giudice morale interno, il quale, agganciato un qualsiasi bersaglio, emetterà sentenza di colpevolezza per raggiungere la catarsi interiore.
È colpa del corridore che sta da solo in mezzo al campo, del vicino di casa che insieme al cane o al bambino si è allontanato più di 200 metri da casa, della mascherina del passante non a norma o del signore che ha toccato la frutta al supermercato se IO non potrò tornare alla vita di prima. Ed è giusto che LUI paghi le conseguenze.
Evoluzione e strategie.
Trovandoci ad affrontare la prima pandemia del mondo globalizzato, l’evoluzione della percezione del rischio è legata a fattori socio-economico-sanitari entropici.
In apertura ci eravamo posti come quesiti gli effetti sulla psiche dell’evento critico: nel caso dei pazienti presi in osservazione ci troviamo molto prossimi all’innesco di una potenziale Massa Critica, senza sapere ancora se la trasformazione che avverrà sarà distruttiva o produttiva.
Riguardo le strategie, esse vanno immaginate con prudenza e si potrebbero così delineare.
Sull’asse reversibilità vs non reversibilità percepita dell’evento traumatico, sappiamo dagli studi di psicotraumatologia che è utile per le vittime immaginare e visualizzare una situazione futura in cui tutto è ritornerà com’era prima o in cui si approderà ad un nuovo equilibrio stabile.
Questa volta lo sforzo mentale di aprire una progettualità a breve, medio o lungo termine appare probabilmente controproducente: un’inutile fonte di stress. Risulterà più efficiente comprimere al massimo questa capacità, focalizzandosi sul vivere momento per momento i graduali e incerti passi che compiremo verso la normalizzazione.
Sull’asse responsabilità interna vs esterna, la strategia migliore è spostare il focus verso la polarità interna: pensare al proprio comportamento con razionalità, rispetto e buon senso senza canalizzare paure e frustrazioni nel fare le pulci al comportamento altrui.
Bisogna fare un passo alla volta insomma, senza né guardare indietro con nostalgia, né troppo avanti con terrore o con eccesso di aspettativa. È fondamentale vincere illusorie tentazioni come tornare indietro ad una visione troppo romantica di un isolamento (psicologico) protettivo o ricercare un capro espiatorio che catalizzi la nostra incapacità di procedere con lucida calma e pazienza.
Lo sanno bene coloro che amano camminare in montagna, quando all’improvviso si trovano in passaggi incerti, pericolosi, col meteo mutevole e con un calo delle forze: indietro non si torna, si accorcia il passo, non si bada troppo agli altri escursionisti, ci si concentra con tutta l’attenzione guardando per terra i due metri successivi.
E quando si arriva lì, si guardano i due metri successivi e così via. Poi tornerà il sentiero largo e comodo, ma ora non pensiamoci.
In questo momento la “terapia” migliore per adattarsi è trovare il passo giusto.
Autore: Andrea Giammaria, psicologo, psicoterapeuta
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