Il termine intelligenza emotiva si è diffuso solo a partire dagli anni Novanta, quando gli psicologi Jhon Mayer (psicologo e professore dell’University of New Hampshire) e Peter Salovey (psicologo, professore presso la Yale University) descrissero “l’Emotional intelligence” come un insieme di competenze cognitive.
Anche se questa locuzione è sulla bocca di tutti da diversi decenni, in realtà sono davvero poche le persone che sanno veramente che cos’è l’intelligenza emotiva. Troppo spesso, infatti, il concetto di intelligenza emotiva è confuso con quello di empatia. Prima di parlare dell’intelligenza emotiva del manipolatore (perché sì, i manipolatori all’apparenza sono dotati di una spiccata intelligenza emotiva, ma possono essere completamente privi di empatia) vediamo che cos’è l’intelligenza emotiva e quando si sviluppa.
Che cos’è l’intelligenza emotiva
J. Mayer e P. Salovey definirono l’intelligenza emotiva come la capacità di comprendere e regolare emozioni e sentimenti, nonché di comprendere intenzioni e sentimenti altrui e impiegare queste conoscenze per direzionare pensieri e azioni.
L’intelligenza emotiva è alla base della capacità di un soggetto di comprendere, regolare, esprimere e utilizzare le emozioni in modo funzionale. Volendo schematizzare le parti che compongono l’intelligenza emotiva, queste sono:
- Consapevolezza
Capacità introspettiva, capacità di conoscere se stesso come organismo a sé, capacità di comprendere i propri bisogni e differenziarli da quelli degli altri, capacità di porre dei confini tra sé e l’altro. Capacità di capirsi e capire il punto di vista dell’altro. Comprendere i propri stati mentali e sapere attribuirgli una causa, capacità di comprendere gli stati mentali altrui e presumere una causa. - Regolazione
Capacità di regolare il volume delle proprie emozioni, la regolazione è preziosissima in quanto ci consente di vedere i fatti per ciò che sono e non per ciò che sentiamo. La regolazione ci consente anche di non lasciarsi sopraffare dalle emozioni altrui. - Motivazione
Le emozioni, ben integrate nel sistema identitario, fungono da spinta motivazionale, ci mostrano una direzione da seguire. Se queste tre componenti funzionano al meglio, riusciamo a muoverci nel mondo seguendo i nostri autentici bisogni… al contrario, se è presente un deficit, cercheremo di sopprimere le emozioni, rifiutandole o finiremo per viverle in modo disregolato. Sia con il diniego emotivo, sia con la disregolazione, le emozioni non funzionano da bussola, anzi, vanno a costruire una fitta nebbia nella quale è difficile orientarsi.
Nell’ambito psicoanalitico, concetti più recenti e più strutturati che fanno riferimento all’intelligenza emotiva, sono quelli di mentalizzazione e regolazione affettiva. Grazie a questi costrutti, gli autori Anthony Bateman (coordinatore presso Anna Freud Centre di Londra) e Peter Fonagy (psicoanalista e professore presso l’University College di Londra), hanno messo a punto dei modelli molto efficaci per il trattamento dei disturbi di personalità.
Quando si sviluppa l’intelligenza emotiva?
L’origine dell’intelligenza emotiva sarebbe da ricercare nello sviluppo della consapevolezza di sé e dell’altro, perché delle tre caratteristiche dell’intelligenza emotiva, l’auto-consapevolezza è la prima ad emergere, immediatamente seguita dall’autoregolazione. Secondo molti autori (Alan Sroufe e Byron Egeland, solo per citarne alcuni), prima ancora che il bambino impari a camminare sviluppa la consapevolezza del sé e in parallelo la consapevolezza dell’altro. E’ con questa consapevolezza che il bambino acquisisce i primi standard comportamentali da applicare nelle relazioni interpersonali grazie anche alla capacità di autoregolarsi.
In altre parole, bambini capricciosi non si nasce, ma lo si diventa mediante esperienze affettive precoci. I bambini molto piccoli, infatti, non hanno la capacità di autoregolarsi e demandano al genitore il potere di ridimensionare o amplificare le emozioni che vivono, demandano al genitore l’assegnazione di un significato alle sensazioni che vivono. E’ qui che si sviluppa (o non si sviluppa!) l’intelligenza emotiva.
Il neglet precoce (trascuratezza emotiva nell’infanzia) e un ambiente sociale caotico (genitori litigiosi, schemi rigidi, regole implicite da rispettare, gerarchie familiari…) minano lo sviluppo dell’intelligenza emotiva e pertanto la persona non riesce più a utilizzare le emozioni in modo funzionale.
L’intelligenza emotiva del manipolatore
La manipolazione emotiva può essere attuata più o meno consapevolmente. Alcune persone sono abili manipolatori emotivi ma non ne hanno alcuna cognizione: hanno appreso tale modello come unico stile interpersonale. Altre persone, invece, sono più consapevoli delle loro “armi”.
Il manipolatore emotivo ha generalmente bisogno di mantenere una posizione di potere e controllo così da non sentirsi mai subordinato all’altro, ha bisogno di mantenere la percezione positiva di sé e ridefinire costantemente la sua idea di realtà, idealizzandolo e accumulando consensi.
I disturbi di personalità associati alle tendenze manipolatorie sono il disturbo borderline di personalità, il disturbo narcisistico di personalità e il disturbo antisociale di personalità.
I deficit di intelligenza emotiva sembrerebbero essere alla base di molti disturbi, in particolare di quei disturbi che vedono dei pattern manipolatori. La domanda sorge spontanea: se vi è un deficit di intelligenza emotiva, come fanno queste persone a manipolare il prossimo? Ciò che si verifica è una distorsione della mentalizzazione e un uso immorale delle capacità intellettive: i manipolatori, sono ottimi osservatori.
Molti soggetti con disturbi di personalità sembrano avere un’elevata intelligenza emotiva. Questa impressione è legata all’abilità dell’individuo nel controllare il comportamento altrui spesso in contrasto con gli interessi dell’altro.
Il manipolatore sembra essere in grado di leggere la mente dell’altro e toccare i tasti giusti per indurre le persone a reagire in modi che vanno poi a vantaggio del manipolatore. Talvolta, le reazioni innescate nell’altro solo all’apparenza possono danneggiare il manipolatore.
La reazione che il manipolatore cerca di innescare, infatti, è spesso all’apparenza negativa: per esempio, cerca di provocare gli altri per fare emergere in loro una forte rabbia, in questo contesto il manipolatore si “camuffa” da vittima. In un contesto più ampio, innescare la rabbia nell’altro è una strategia attuata dal manipolatore per sentirsi nel giusto e legittimare le proprie sensazione. Se “la vittima” reagisce con rabbia, il manipolatore può rivendicare un’eccessiva reazione della persona che è stata provocata, negando appunto di averla provocata (non sono io in errore, vedi che sei tu esagerato!!!).
In altri casi, il manipolatore può usare la propria capacità di leggere la mente per rassicurare gli altri, per sedurli o per anticipare i bisogni della persona con cui sta interagendo. Tutto questo al fine di guadagnare terreno, apprezzamento e potere.
Tutto ciò potrebbe fornire l’impressione di una persona con un’elevata intelligenza emotiva, tuttavia, in questi individui la lettura della mente altrui si manifesta a spese della capacità di rappresentare la propria mente.
Cosa significa? Che nei manipolatori si verifica un grande sbilanciamento tra la capacità di capire la mente degli altri e quella di vedere se stessi in maniera accurata. Un ulteriore deficit di intelligenza emotiva lo si può notare osservando l’equilibrio tra la possibilità di essere sensibili rispetto a ciò che le persone sanno o credono e gli stati emotivi e le esperienze affettive.
In altre parole, il manipolatore potrebbe non avere la più pallida idea di come l’altro si sente ma solo avere gli strumenti per innescare le reazioni desiderate, oppure, il manipolatore emotivo potrebbe sapere che cosa l’altro prova ma non entrare in risonanza con quei sentimenti. Questo può dare al manipolatore l’apparente libertà di ferire gli altri a suo piacimento perché non essendoci risonanza interna (empatia) non vi è danno.
Intenzionalità e danno arrecato alla vittima
Una domanda che mi viene spesso posta suona più o meno così: «ma è consapevole dei danni che mi provoca?». Oppure: «lo fa perché ha un disturbo o vuole ferirmi?»
Queste domande hanno il celato intento di fornire una giustificazione al manipolatore. Tali domande sembrano riluttanti all’idea del libero arbitrio, nonostante le stesse persone che me le pongono sono quelle che portano avanti dei pensieri severi e auto-critici che possono essere sintetizzati con la celebre frase «chi è causa del suo mal pianga se stesso».
Nella pratica clinica, nelle ricerche e negli studi, noi psicologi finiamo per comprendere che il libero arbitrio è un lusso che poche persone hanno. Se agiamo in un certo modo, spesso, non è per la nostra libertà di scelta ma è perché le esperienze salienti della nostra esistenza ci hanno condotto in quella direzione. Il libero arbitrio è una conquista, dovrebbe appartenerci di diritto con la nascita ma in realtà non sempre è così, molti di noi devono conquistarlo facendo pace con ciò che ci è accaduto in passato.
Abbiamo da imparare tanto dai bambini. Se a un bambino provi a porre domande sull’intenzionalità e la colpevolezza, riceverai una risposta commisurata al danno. Se racconti a un bambino questi due episodi e provi a chiedergli: chi è più cattivo, Marco o Luca, il bambino risponderà Marco.
- Marco ha visto la mamma stanca e nell’intento di aiutarla, ha fatto cadere un vassoio rompendo 6 bicchieri.
- Luca, per fare un dispetto alla mamma, ha buttato un bicchiere a terra, rompendolo.
Chi è più cattivo, Marco o Luca? I bambini molto piccoli, ignorano il concetto di intenzionalità e per questo risponderanno “Marco”, perché è colui che ha causato più danno.
Quando si parla di abuso emotivo, l’intenzionalità dovrebbe scivolare in secondo piano e proprio come fanno i bambini piccoli, anche noi adulti dovremmo soffermarci sul danno subito. Se una persona ci sta danneggiando, è giusto correre ai ripari, senza indugio, perché abbiamo il sacrosanto dovere verso noi stessi di metterci in salvo, di costruirci un presente sicuro e pieno di benessere.
Da un punto di vista pratico, l’intenzionalità non è qualcosa che dovrebbe interessarci. Solo in ambito clinico, l’abuso della mentalizzazione è oggetto di valutazione al fine del trattamento.
La tendenza alla manipolazione è una compromissione comportamentale. Nei livelli di moderati di compromissione troviamo quegli individui che usano la propria comprensione degli stati mentali dell’altro per arrecargli danno o a fini egoistici, ma la parte relativa alla volontà/intenzionalità di controllare la mente altrui è limitata. In questo contesto, anche una comprensione empatica dell’altro (con o senza risonanza interna) può essere utilizzata a fini manipolativi ed egoistici.
I livelli di compromissione più elevati sono raggiunti dagli individui che utilizzano la loro conoscenza della mente altrui per scopi sadici. Tale compromissione è più rara. Più di frequente, in ambito clinico osserviamo un uso improprio della lettura della mente altrui con l’impiego delle informazioni per innescare nell’altro colpa, vergogna, ansia, fedeltà, senso di umiliazione e rabbia. Una forma particolare di abuso emotivo ai fini coercitivi è rappresentata dal tentativo deliberato di minare la capacità di pensare di un’altra persona. Se chi subisce l’abuso ha, a sua volta, un’intelligenza emotiva carente (con difficoltà ad accedere ai suoi stati interni e quindi difficoltà a comprendere la mente propria e altrui), può andare incontro a elevate compromissioni dell’autonomia personale.
Lettura consigliata: mentalizzazione e disturbi di personalità
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