Se la tua solitudine potesse parlarti, ti direbbe che…

| |

Author Details
Dott.ssa in biologia e psicologia. Esperta in genetica del comportamento e neurobiologia. Scrittrice e founder di Psicoadvisor

Ci sono dolori che non fanno rumore. Che non si mostrano con lacrime o parole. Eppure sono lì, restano sottopelle, come una presenza silenziosa che ci accompagna ovunque andiamo. La solitudine è uno di questi dolori. E non sempre ha a che fare con l’assenza di qualcuno. A volte ci si sente soli anche in mezzo agli altri, anche in una stanza piena di voci, anche dentro un abbraccio.

La solitudine parla. Solo che spesso non sappiamo ascoltarla. E se potessimo darle voce? Se potessimo chiederle cosa vuole dirci? Forse scopriremmo che quella solitudine non è contro di noi. Forse sta solo cercando, da sempre, di proteggerci. Ed eccomi qui, ancora una volta a proporti un interessante esercizio introspettivo. L’ho già fatto con l’ansia e con la rabbia. Oggi tocca al senso di solitudine che spesso è così radicato in noi da cronicizzarsi e fare capolino anche quando meno ce lo aspettiamo, anche quando siamo in un legame che, all’apparenza, non dovrebbe farci sentire soli.

La solitudine è uno stato affettivo complesso, ha origine da una parte di noi, una parte profondamente ferita che ha imparato, forse molto presto, che esporsi è pericoloso. Che mostrare il bisogno può significare restare senza risposta. O peggio, essere derisi, ignorati, svalutati.

Quella parte, allora, ha scelto la strategia che sembrava più sicura: isolarsi. Perché meglio il silenzio, meglio la distanza, meglio la solitudine… che il rischio di essere di nuovo feriti. È una parte che ha fatto il possibile per risparmiarci sofferenza, pur rinunciando al desiderio di contatto. E solo quando quella parte si sente ascoltata, capita, riconosciuta… può finalmente “abbassare le armi” e lasciare spazio a nuove possibilità di connessione.

La solitudine che sentiamo nel presente, infatti, non è mai “solo” del presente. È come se ogni volta che nel nostro presente qualcosa ci fa percepire distanza, esclusione o disconnessione, quella sensazione si agganciasse a tutte le esperienze precedenti di incomprensione, rifiuto, mancanza di ascolto che abbiamo vissuto nella nostra storia.

In ogni esperienza di non ascolto di oggi si risveglia quella bambina, quel bambino, che aveva bisogno di essere preso sul serio. Che aveva bisogno di essere guardato negli occhi e sentirsi dire:

  • “Capisco che è importante per te.”
  • “Raccontami.”
  • “Sono qui.”
  • “Ti ascolto, ti vedo, ti comprendo”

Quando emerge la solitudine nel presente?

La solitudine si affaccia ogni volta che:

  • Esprimiamo un bisogno e non troviamo accoglienza.
  • Raccontiamo una nostra fragilità e l’altro minimizza, cambia discorso, si allontana.
  • Chiediamo vicinanza e otteniamo freddezza, distrazione, distanza.
  • Ci sentiamo “fuori posto”, non in sintonia con chi ci circonda.
  • Ci sforziamo di spiegare ciò che sentiamo e l’altro non comprende, o peggio, giudica.
  • Desideriamo essere capiti senza dover spiegare ogni cosa, e invece ci sentiamo soli nella nostra esperienza interiore.

In questi momenti, non è solo il presente che fa male. È che il presente riaccende tutte quelle antiche scene in cui abbiamo imparato che i nostri bisogni non meritavano spazio, che il nostro sentire era troppo, esagerato, sbagliato, o che per essere amati dovevamo nasconderci, adattarci, non disturbare. La solitudine non porta solo l’assenza del momento. Porta la memoria di tutte le volte che abbiamo sentito di non appartenere. Di non essere stati visti, ascoltati, considerati o creduti.

E il corpo lo ricorda, anche quando la mente prova a razionalizzare: “Non dovrei prenderla così male…”, “Non importa…”, “Non fa niente…”. Ma quel vuoto ha radici più profonde.

Quando la solitudine non è solo paura del rifiuto, ma bisogno di proteggere il proprio sé

La solitudine non sempre nasce solo dalla paura di essere rifiutati. A volte nasce da qualcosa di ancora più sottile, ma altrettanto doloroso: il tentativo di difendere la propria identità. Di proteggere quello spazio interiore che nessuno, se non noi, dovrebbe abitare.

Ci sono infanzie in cui non si è sperimentato solo l’abbandono. Ci sono infanzie in cui, paradossalmente, si è sperimentata un’invasione. Un genitore troppo presente, troppo vicino, troppo bisognoso, decisamente ingombrante! Un genitore che non ascoltava davvero chi eri, ma che ti diceva chi dovevi essere. Che non si limitava ad accompagnarti, ma si sostituiva a te: ti interpretava, ti definiva, decideva al tuo posto.

In questi casi, chiedere amore non significava solo rischiare di non averlo, era un rifiuto certo ma portava anche altri significati. Chiedere amore significava rischiare di perderti, di essere inghiottito nel bisogno dell’altro, di non avere più uno spazio tuo, un pensiero tuo, un desiderio tuo.

Così, la solitudine ha imparato a fare da argine. Non come rassegnazione. Non come semplice fuga dal dolore del rifiuto. Ma come un confine disperato, un tentativo di dire: “Qui non puoi entrare. Qui ci sono io.”

La solitudine, allora, non è solo vuoto. È uno spazio protetto, costruito per difendere la propria autonomia psichica, la propria identità. Per evitare quella fusione che annienta il sé. Per non essere risucchiati nel bisogno onnipotente di un genitore che non lasciava spazio per la differenza, per la separatezza, per la libertà.

In questo caso, la solitudine diventa una forma di dignità. Un modo, spesso inconsapevole, di preservare il proprio confine più profondo. Meglio soli, sì — ma interi. Meglio soli, che perduti nell’identità dell’altro.

E proprio per questo che la solitudine che sperimenti non è una condanna. È stata per lungo tempo una strategia di sopravvivenza. Un adattamento prezioso, costruito per salvarti da qualcosa che avrebbe potuto farti molto più male: la perdita di te stesso. Quando la solitudine torna da te, viene a fare capolino nella tua vita, non trasformarla in senso di diversità, distanza e sconforto. Accoglila, tieni presente cosa hai dovuto attraversare, cosa ha dato vita a questa parte di te e riconoscila con dolcezza.

Potremmo provare a dirle: “Grazie per avermi difeso. Ora ci sono io vicino a me”.  Perché la vera vicinanza non chiede di cancellarti. La vera vicinanza si costruisce quando possiamo essere due… senza smettere di essere uno. E se ti senti solo, stai cercando semplicemente di sentirti integro, completo, anche in uno.

Impara ad autoaccudirti e afferma chi sei

Ci sono solitudini che non si colmano con la compagnia. Si colmano solo con il coraggio di guardare il proprio vuoto negli occhi. Perché la solitudine, spesso, non è l’assenza dell’altro. È la presenza viva di una mancanza che continua a parlare, a chiedere, a sperare.

Sappi che la tua solitudine non chiede di essere cacciata via, chiede solo di essere capita; se desideri capirti nel profondo, se hai voglia di rileggere le tue ferite con uno sguardo gentile e dare un significato nuovo a ciò che hai vissuto, ti consiglio di leggere il mio libro bestseller «il Mondo con i Tuoi Occhi». Lo trovi su amazon o in tutte le librerie.

Autore: Anna De Simone, psicologo esperto in psicobiologia
Se ti è piaciuto questo articolo puoi seguirmi su Instagram:  @annadesimonepsi
Seguire le pagine ufficiali di Psicoadvisor su Facebook: sulla fb.com/Psicoadvisor e su Instagram @Psicoadvisor