Like sui social: il vero motivo per cui non riesci a farne a meno

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

Ci sono momenti in cui un semplice gesto – aprire l’app, pubblicare una foto, controllare le notifiche – sembra capace di cambiare il nostro umore. Un like, due cuori, qualche emoji: e all’improvviso ci sentiamo più belli, più giusti, più visti. È come se in quel piccolo clic si concentrasse una carezza emotiva, un’attenzione che scalda, un segnale che dice: “Tu esisti. E piaci.”

Ma se davvero bastasse questo per sentirsi bene, perché il sollievo dura così poco? Perché, dopo la gratificazione iniziale, torna quel bisogno silenzioso, quella fame di approvazione, quella sensazione che non sia mai abbastanza?

Non è solo una questione di tecnologia

È una questione profondamente umana. Il bisogno di essere approvati, riconosciuti, scelti, affonda le radici nella nostra storia affettiva e biologica. I social non hanno inventato il bisogno di piacere: lo hanno solo reso misurabile, pubblico e incessante.

Questo articolo non vuole demonizzare i social né chi li usa. Vuole piuttosto accompagnarti in una riflessione più profonda: perché hai bisogno di quel like? Cosa si muove dentro di te quando lo ricevi… e cosa accade quando non arriva? Quali fili invisibili ti legano a quel gesto, apparentemente banale, ma emotivamente potentissimo?

Scopriremo che dietro a quel bisogno si nascondono ferite antiche, meccanismi cerebrali precisi e, spesso, una profonda ricerca di identità.

1. Il bisogno di approvazione: una radice antica

Ogni essere umano nasce con un bisogno fondamentale: quello di essere riconosciuto dallo sguardo dell’altro. Non parliamo di vanità, ma di sopravvivenza emotiva. Nei primi mesi di vita, il volto della madre – o della figura primaria di accudimento – è lo specchio in cui il bambino si scopre esistente. È attraverso lo sguardo altrui che costruiamo il senso del nostro valore.

Quando quell’approvazione primaria è stata incostante, assente o condizionata (“ti vedo solo se ti comporti come voglio io”), il bambino impara presto che per essere amato deve fare, compiacere, attirare l’attenzione. Il bisogno di like, in questa prospettiva, non è altro che la versione digitale di quel bisogno antico: dimmi che vado bene, fammi sentire che valgo, rassicurami sul fatto che sono degno di amore.

2. I social come specchio dell’identità fragile

Quando l’identità personale non è ben consolidata, si tende a cercare fuori ciò che dovrebbe risiedere dentro. I social, con la loro struttura di feedback continuo, diventano il perfetto campo da gioco per chi ha bisogno di conferme costanti. Un post diventa una richiesta implicita di approvazione, un selfie può trasformarsi in un grido: “Guardami, dimmi che ti piaccio, non ignorarmi.”

Chi ha un’identità solida può pubblicare per esprimere, raccontare, condividere. Chi ha un’identità fragile pubblica per confermare la propria esistenza. E la differenza è sottile ma abissale.

3. Il circuito cerebrale della gratificazione

Dal punto di vista neuroscientifico, ogni like attiva il circuito dopaminergico della ricompensa, lo stesso coinvolto nel piacere immediato, nel cibo, nel sesso e in alcune forme di dipendenza. La dopamina è il neurotrasmettitore della motivazione, ma anche dell’anticipazione: non è tanto il like in sé a gratificare, quanto l’attesa di riceverlo.

Questo crea un meccanismo a loop: pubblico → aspetto → ricevo → mi sento bene → voglio ancora. È il principio dell’intermittent reward: come una slot machine, i social ci allenano a controllare compulsivamente lo schermo in attesa della prossima piccola ricompensa.

Nel tempo, il cervello si abitua a questa gratificazione rapida e diventa meno tollerante al vuoto, al silenzio, alla non risposta. È così che l’assenza di like può generare ansia, insicurezza, perfino vergogna.

4. La ferita dell’invisibilità

Molti non cercano un like: cercano una smentita. La smentita di sentirsi invisibili, trascurabili, ignorati. Quando, da bambini, non siamo stati visti nel nostro dolore o nella nostra gioia, impariamo a compensare. E da adulti potremmo farlo chiedendo attenzione sotto nuove forme: iperproduttività, perfezionismo… o appunto, post sui social.

Ogni notifica allora diventa un piccolo risarcimento. Ogni reazione un tentativo di colmare quella ferita primaria: “Questa volta mi vedono, questa volta mi scelgono.”

Ma non può funzionare. Perché nessun numero di like potrà mai sostituire il bisogno profondo di sentirsi amabili a prescindere da ciò che si fa, si mostra, si conquista.

5. Quando l’immagine diventa più importante dell’essere

Viviamo in una cultura in cui “essere” sembra non bastare. Bisogna mostrarsi, raccontarsi, performare continuamente una versione accettabile e desiderabile di sé. I social, da questo punto di vista, amplificano un meccanismo già presente: si premia ciò che appare più che ciò che è.

Così, la nostra immagine online diventa un’estensione del nostro ego, una maschera da curare, migliorare, esporre. Ma più ci identifichiamo con quell’immagine, più diventiamo vulnerabili. Perché ogni giudizio negativo, ogni post ignorato, ogni like mancato… colpisce non solo l’ego, ma il nostro senso di identità.

6. Il cortocircuito tra bisogno e dipendenza

A lungo andare, il bisogno di like può trasformarsi in una dipendenza emotiva. Non nel senso patologico, ma in quello esistenziale: iniziamo a pensare di valere solo quando piacciamo. È un cortocircuito pericoloso: la nostra autostima diventa esterna, eterodiretta, fragile.

Chi è più a rischio? Le persone con una storia di svalutazione, chi ha avuto genitori critici o assenti, chi ha interiorizzato l’idea che “devi guadagnarti l’amore”. In questi casi, i social offrono una formula seducente: basta uno sforzo minimo per ricevere una dose di gratificazione. Ma è una gratificazione effimera, superficiale, che spesso peggiora il senso di vuoto.

Come si guarisce dal bisogno compulsivo di approvazione?

Il primo passo è accorgersene. Guardare con onestà la propria relazione con i social. Chiedersi: perché pubblico questa cosa? cosa sto cercando? che effetto mi fa quando non ottengo la reazione che vorrei? Poi, è importante lavorare sull’autenticità. Pubblicare meno per piacere e più per condividere ciò che ci rappresenta davvero. Togliere valore numerico alle interazioni e restituirlo alla qualità del contenuto e delle relazioni reali.

E infine, e soprattutto, occorre fare un lavoro profondo su di sé: sulle proprie ferite, sul bisogno di approvazione, sull’autostima, sull’identità. Ricostruire dentro quello che per troppo tempo abbiamo cercato fuori.

Ritrovare il proprio valore al di là dello sguardo degli altri

Il bisogno di like non è un capriccio. È spesso il sintomo di qualcosa di più grande: un bisogno di amore, di visibilità, di riscatto. E va accolto, non giudicato. Ma va anche compreso e trasformato. Perché se restiamo dipendenti da quel clic, ci allontaniamo da noi stessi. E ogni volta che deleghiamo agli altri il potere di farci sentire vivi, perdiamo un pezzetto di autenticità.

Nel mio libro Il mondo con i tuoi occhi, parlo proprio di questo: di come imparare a guardarsi senza filtri, di come tornare a sentirsi interi senza l’approvazione costante degli altri. È un invito a ricostruire la propria identità su basi solide, a liberarsi dai condizionamenti sociali, e a coltivare una felicità su misura, che non dipenda dallo sguardo degli altri ma dalla verità di ciò che siamo.

I like possono farci sentire bene per un istante. Ma solo l’amore autentico – per noi stessi, per chi ci vede davvero – può farci sentire interi per sempre. Per immergerti nella lettura e farne tesoro, puoi ordinarlo qui su Amazon oppure in qualsiasi libreria

A cura di Ana Maria Sepe, psicologo e fondatrice della rivista Psicoasvisor
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