Ami più il tuo compagno o tuo figlio?

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Dott.ssa in biologia e psicologia. Esperta in genetica del comportamento e neurobiologia. Scrittrice e founder di Psicoadvisor

Qualcuno potrebbe interpretare il titolo come una domanda concreta e un po’ sadica, in realtà il quesito posto è meramente provocatorio. Qualche tempo fa abbiamo pubblicato un articolo che va a indagare la famigerata frase, pronunciata da molte mamme, «solo quando avrai un figlio potrai capire…». Questa frase è il frutto della mitizzazione materna, le prime vittime di questo stereotipo sono le donne tutte (madri e non), accompagnate anche dai papà che molto spesso, nell’educazione dei figli, assumono un ruolo secondario.

Questa frase sottintende che solo una madre può davvero amare, solo una madre sa cosa significa realmente preoccuparsi per qualcuno, le altre donne possono solo immaginarlo perché se non hanno un figlio, non possono capire. Quando abbiamo pubblicato l’articolo sui social network, le polemiche e i litigi tra i lettori non sono tardati ad arrivare. Molte mamme lettrici, infatti, rivendicavano con veemenza il senso di quella frase, affermando anche che l’amore per un figlio surclassa nettamente il sentimento sperimentato per il partner.

La mia reazione a questo scenario è stata dubbiosa: è possibile che nella nostra società anche la quantità d’amore donato divenga motivo di disputa e soprattutto competizione? Abbiamo davvero così bisogno di sentirci migliori rispetto all’altro? Rimandando in altra sede queste quesiti, ci soffermeremo sull’essenza dell’essere una persona che ama, prima ancora dell’essere madre o padre.

La scala dei valori: essere madre è tutto

Entro certi limiti, il primato del «codice materno» rispetto alla femminilità, all’autonomia dell’essere donna, all’erotismo, alla complicità con il partner, può essere sano e ragionevole. Tuttavia, quando il «codice materno» diviene il fulcro centrale della propria esistenza, bisognerebbe rallentare e iniziare a riflettere sul proprio percorso e su ciò che si sta proiettando sul bambino.

La nascita del primo figlio costituisce indubbiamente un momento cruciale all’interno della famiglia. Quella che prima era una coppia genitoriale va ad assumere una nuova valenza supportiva dove la mitizzazione materna non coadiuva un gioco di squadra così come dovrebbe verificarsi in una famiglia sana.

Quando arriva un figlio, la coppia va a rinegoziare i propri ruoli, gli equilibri cambiano. Ciò che non dovrebbero cambiare, invece, sono le responsabilità e il potere che, in una coppia ben bilanciata, dovrebbero rispondere al principio di equità. Altro fatto indubbio legato alla maternità e alla paternità, è che questo cambio di ruoli può apportare dei cambiamenti alla personalità: l’introduzione di nuove variabili e compiti, può modificare il precedente assetto organizzativo interiore (oltre che quello chiaramente pratico).

Le dinamiche di esclusione del partner

Il modo con il quale la coppia si riassetta è determinante. Da un punto di vista psicoanalitico classico, rifacendosi alle teorie freudiane, la nascita del figlio introduce un terzo elemento nella relazione che riattiva le dinamiche edipiche riproponendo vissuti di esclusione e profondi coinvolgimenti che si alternano in momenti diversi. Il “partner secondario” finisce per sentirsi incluso o profondamente escluso dalla relazione. Un padre, in alcuni contesti, potrebbe sentirsi messo ai margini della propria famiglia.

La nascita di un figlio riporta in primo piano le rappresentazioni interne delle figure genitoriali relative alle prime esperienze affettive. In altre parole, nel bambino proiettiamo ciò che siamo stati noi un tempo (le nostre paure, i nostri bisogni, i nostri sogni infranti o avverati che siano…) e in noi stessi, i ruoli genitoriali che abbiamo costruito.

Il legame che si instaura tra madre-padre-bambino ha un elevato valore rappresentazionale delle dinamiche intrapsichiche e relazionali. Senza una sana struttura del sé, il potere rievocativo della nascita di un figlio potrebbe riattivare vissuti legati alla propria infanzia rendendo i confini tra sé e bambino sfumati e poco definiti. A causa di questa sovrapposizione, molto spesso il bambino non viene vissuto con un organismo a sé stante, con bisogni propri e aspettative del tutto personali. In queste dinamiche ricorrenti, i bisogni del bambino vengono sistematicamente sostituiti con quelli materni.

Altra dinamica molto ricorrente: il bambino diviene un mezzo per ridefinire i rapporti con la propria famiglia di origine. Quando nasce un figlio, infatti, non è solo la propria identità a cambiare, ma anche il proprio ruolo in rapporto a quello dei genitori che divengono nonni. Se l’emancipazione emotiva è stata raggiunta a malapena con la convivenza (o il matrimonio), la nascita di un figlio diviene l’evento cardine per rinegoziare il proprio ruolo all’interno della famiglia d’origine. La nascita di un figlio rappresenta un concreto mutamento di status di grande clamore sociale e diviene un fattore che può mediare il proprio ruolo sia all’interno della propria famiglia d’origine, sia all’interno della famiglia d’origine del partner.

La genitorialità è un lavoro di squadra

E’ chiaro che, con l’arrivo di un figlio, i genitori debbano essere pronti ad accudire materialmente ed emotivamente il piccolo arrivato. Questo evento dovrebbe essere motivo di coesione genitoriale. Essere una madre single è davvero dura, perché, in realtà, la genitorialità dovrebbe essere un gioco di squadra… ma il paradosso vuole che molte madri in coppia si comportano come se fossero single. Nella famiglia sana, il padre non è una figura sfocata sullo sfondo. Il co-genitore può e deve essere coinvolto nelle cure parentali.

I genitori possono imparare a comunicare con il bambino e possono farlo insieme. Nella famiglia funzionale, con l’arrivo di un figlio, il co-genitore non si sentirà mai minacciato o sottratto di attenzioni da parte del partner.

L’amore incondizionato non si sperimenta solo per i figli

Non c’è una distinzione tra amore materno, amore paterno e amore per il partner se in tutti e tre i casi si fa riferimento a un amore incondizionato. Certo, l’esperienza può essere diversa ma non in termini affettivi, solo nei termini che coinvolgono l’aspetto sessuale e l’aspetto dell’accudimento pratico.

L’amore incondizionato è un amore che pone le sue basi nel principio di piena accettazione: si ama l’altro per ciò che è e non in rapporto a ciò che un giorno potrebbe essere, ne’ tantomeno in rapporto a un proprio guadagno, meno che mai, si può amare l’altro in rapporto alla proiezione che facciamo in lui dei nostri bisogni. I meccanismi identificativi e proiettivi sono molto pericolosi in tutte le relazioni affettive, lo divengono ancora di più nelle relazioni genitore-bambino per il forte potere rievocativo spiegato in precedenza.

Alla base dell’amore incondizionato c’è l’accettazione, il principio cardine è questo: «io ti accetto e stimo per ciò che sei e non intendo cambiarti o plasmarti». Accettare l’altro per ciò che è significa rispettarlo e rispettare anche i suoi bisogni o le sue difficoltà.

L’amore vero dovrebbe essere incondizionato. Questo tipo d’amore richiede una profonda cura per l’altro, empatia e resilienza per non farsi sopraffare dalle difficoltà. Stesse caratteristiche richieste in un buon genitore e in un buon partner. Vorrei concludere questo articolo con il commento di una lettrice:

«Ho avuto mio figlio dopo 12 anni di attesa e questa frase era sempre detta da altre madri che con la loro cattiveria dovevano forse sottolineare che ad ogni modo mi mancava qualcosa, quello che secondo loro era il vero amore: i figli. Ma posso affermare con tutto il mio cuore che ho amato ed amo mio marito come adesso amo nostro figlio e quindi il vero amore l’avevo trovato anche prima, senza figli».

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