Tutti iniziamo la vita così: indifesi, inermi, incapaci di sopravvivere da soli. Tutti iniziamo la vita in uno stato di dipendenza. E’ in quello stato di dipendenza che muoviamo i nostri primi passi verso una sana autonomia. Purtroppo, questa agognata autonomia non arriva per tutti, o meglio, per qualcuno arriva in forma distorta, per qualcuno arriva in forma sana e per altri non arriva affatto, gettando le basi per ulteriori dipendenze. Paradossalmente, queste tre casistiche che delineano le nostre traiettorie di sviluppo e la nostra vita affettiva, non hanno nulla a che fare con noi ma dipendono dall’ambiente sociale in cui cresciamo, dipendono dalle relazioni significative che instauriamo: dipendono dai nostri genitori. Se questo stato di dipendenza è associato a una deprivazione, l’autonomia emotiva non si svilupperà in modo sano. Nota bene, dopo vedremo meglio cosa si intende per «deprivazione» e «supporto».
Il bisogno di accettazione è intrinseco in ognuno di noi. E’ nel nostro DNA. Quando veniamo al mondo (inermi e indifesi) siamo accompagnati da bisogni geneticamente programmati, in particolare siamo accompagnati dal bisogno di sentirci protetti, accettati e amati (quello che molti autori e scienziati chiamo «bisogno di attaccamento»). Alcuni di noi credono (o meglio, imparano) che l’unico modo per essere accettati, amati e sentirsi sicuri, consiste nel mettere da parte se stessi e vivere in funzione dei bisogni degli altri. In altre parole, alcune persone imparano che compiacere l’altro è l’unica forma di rassicurazione possibile. Tale casistica si verifica perché queste persone non hanno avuto l’opportunità di sviluppare una sana autonomia, non hanno avuto l’opportunità di imparare ad auto-rassicurarsi, auto-accudirsi e soprattutto, auto-affermarsi. Queste persone sono state «bambini e bambine deprivati/e».
La resilienza del bambino supportato, la frustrazione del bambino deprivato
Questo passaggio non è affatto banale perché quando parliamo di autonomia, parliamo di identità. La fase più critica della nostra vita non è l’adolescenza, ne’ tantomeno l’ingresso nel mondo del lavoro. La fase più critica della nostra vita è quella in cui siamo completamente in balia dell’umore altrui, dell’umore e delle percezioni di chi ci accudisce. In quel frangente, in base ai feedback che riceviamo, possiamo sviluppare un senso di sicurezza o un senso di inadeguatezza, possiamo sviluppare senso di iniziativa o stagnazione, paura o fiducia, conforto o sconforto, resilienza o frustrazione. La resilienza (tutti si riempiono la bocca con questa parola ma pochi sanno realmente di cosa si tratta), non è una caratteristica che cade dal cielo, ma è un attributo che si conquista quando il bambino impara che ha potere sul mondo esterno.
La resilienza, dunque, non è un qualcosa di innato ma si sviluppa attraverso un apprendimento implicito: l’ambiente può avere un ruolo supportivo, io posso agire sull’ambiente, io ho la forza e la capacità di poter modificare il mio presente, io sono padrone di me stesso e ho le risorse per cambiare ciò che sta avvenendo, per accettarlo, per tollerarlo e soprattutto, per superarlo. E’ così che pensa l’adulto che ha avuto un’infanzia supportiva, è così che ragiona l’adulto che ha guarito le sue ferite. Chi non è resiliente, al contrario, non crede di poter esercitare una sua influenza sull’ambiente circostante e così finisce per manifestare rabbia, frustrazione e impotenza dinanzi agli ostacoli, finisce per subirli. Stiamo di fronte a due apprendimenti differenti, l’adulto resiliente è stato il bambino supportato, l’adulto frustrato e impotente, è stato un bambino deprivato.
Il bambino supportato
Chiariamo subito alcuni punti.
- Un bambino supportato non è un bambino viziato
- Non ha genitori accondiscendenti
- Non ha genitori con super poteri
- Non ha genitori perfetti
- Ha genitori che sanno mentalizzare
Un bambino supportato ha genitori che vedono in lui un individuo a sé, con bisogni propri e del tutto personali e soprattutto tante curiosità sul mondo. Un bambino che viene alla luce, infatti, non sa nulla del mondo se non ciò che gli viene mostrato e insegnato dai genitori. Soprattutto, un bambino che viene alla luce non sa nulla di se stesso se non quello che gli viene mostrato e insegnato dai genitori.
I bambini piccoli, infatti, non hanno grosse capacità cognitive, non rifletto, non hanno un nesso causa-effetto. In uno stato così precoce della loro esistenza, sanno solo come si sentono e spesso sono spaventati e bisognosi di sicurezza. Il bambino, infatti inizia a formare la sua identità, a capire chi è in base a come si sente, o meglio, in base a come lo fanno sentire i genitori.
Un bambino supportato non viene deriso, schernito o rimproverato se fa tante volte la pupù nel pannolino o se tarda ad imparare a usare il vasetto. Un bambino supportato viene rassicurato che è naturale avere delle difficoltà ed è fondamentale imparare a rispettare i propri tempi. Un bambino supportato, semplicemente, si sente al sicuro nel legame con il suo (o i suoi) caregiver.
Il bambino supportato, nei suoi primi anni di vita, ha visto un’adeguata soddisfazione dei suoi bisogno di accettazione e sicurezza. E’ a partire da questo appagamento che ha appreso di essere degno di amore, stima e fiducia, è a partire da questo appagamento che ha sviluppato una sana autonomia e una buona base di resilienza.
Il bambino deprivato
Nell’immaginario collettivo il bambino deprivato è un bambino maltrattato, cresciuto di stenti oppure senza amore. Niente di più falso. Un bambino deprivato è semplicemente cresciuto con un «genitore irrisolto». Il genitore irrisolto, generalmente, proietta nel figlio le proprie ambizioni e i propri bisogni… tanto da ignorare completamente i bisogni reali del bambino. Tende a essere ccondiscendente o troppo rigido, questo per compensare in qualche modo a carenze e mancanze personali.
I genitori di un bambino deprivato non sono mostri, sono solo persone che hanno grosse ferite e scarsa capacità di mentalizzare (scarsa empatia, scarsa capacità di capire gli stati emotivi del figlio). Questo deficit conduce il genitore a realizzare delle false attribuzioni che però, con il tempo, si trasformeranno in realtà.
Poniamo un esempio pratico. La scena è tra le più classiche: il bambino che vuole giocare con un oggetto in vetro o ceramica. Il piccolo cerca di arrampicarsi sulla sedia per raggiungerlo… la mamma gli dice ripetutamente «No! Stai fermo…». Il piccolo insiste e prova ancora a raggiungere l’oggetto. La mamma continua: «Non si fa!» e intanto pensa: «mio figlio non obbedisce» – «è davvero testardo» – «mi vuole sfidare…» o peggio «vediamo chi vince». In realtà la mamma dovrebbe pensare con la testa del bambino e non con la propria… semplicemente, tutti i bambini sono curiosi. Ciò che dovrebbe pensare è: «il piccolo è molto incuriosito da quell’oggetto». Perché questo è importante? Perché le prime idee che la mamma si farà di quel bambino tenderanno a concretizzarsi, perché nelle espressioni, nella gestualità, nel tono di voce e nelle parole, la mamma (o altro caregiver) trasmetterà quelle credenze al bambino, deprivandolo della possibilità di sviluppare una propria identità. Il bambino svilupperà l’identità in base alle credenza del genitore.
Un bambino deprivato viene spesso considerato un’estensione del sé genitoriale. I suoi bisogni vengono sistematicamente sostituiti con quelli del genitore. Non solo, un bambino deprivato non conoscerà mai la vera sicurezza perché ben presto imparerà che per sentirsi al sicuro dovrà accondiscendere alle aspettative genitoriali. Spesso questi bambini diventano bambini adultizzati o bambini invisibili, che sentendosi di peso decidono di non gravare in nessun modo sul genitore.
Come è intuibile, ci sono diversi gradi di deprivazione e ogni livello condurrà a deficit di autonomia più o meno marcata o senso di autonomia più o meno distorta. In primis, un bambino che cresce in una famiglia disfunzionale viene deprivato della sicurezza necessaria entro la quale svilupparsi, viene deprivato dell’accettazione e soprattutto dell’amore incondizionato. Questi bambini, da adulti, svilupperanno un sistema di attaccamento ansioso o evitante.
Nel tipo ansioso, l’adulto farà fatica a dire di no, tenderà a essere accondiscendente, avrà una bassa autostima e problemi di dipendenza affettiva (anche dalle figure genitoriali, con sensi di colpa cronici, senso di vergogna, paura di uscire dalla zona di comfort). Nel tipo evitante, l’adulto avrà un senso di autonomia distorto, sentirà di non aver bisogno di nessuno, tenderà a porre distanze abissali tra sé e l’altro. Altri dettagli sono disponibili nell’articolo: «come individuare il proprio stile di attaccamento e quello del partner». Nota bene: lo stile di attaccamento non ci guida solo nelle relazioni affettive ma scandisce anche il nostro grado di tolleranza allo stress (resilienza).
I dati degli studi longitudinali
Nota bene. Quelle che ho riportate nel presente articolo non sono illazioni, si tratta di nozioni dimostrate con dati scientifici. Tra i vari studi che dimostrano quanto riportato nel testo, cito il «Minnesota Longitudinal Study of Risk and Adaptation».
Se ti piace quello che scrivo, seguimi su Instagram @annadesimonepsi