Ti sei mai chiesto se tuo figlio potrebbe stare vivendo qualcosa che non trova le parole — o il senso — per raccontarti?
Molti genitori pensano che, se ci fosse davvero un problema, i bambini verrebbero subito a parlarne. Ma non sempre è così: a volte i bambini tacciono non perché manchi loro il coraggio, ma perché non vedono utilità nel condividere ciò che vivono. Credono che gli adulti non capirebbero, che non potrebbero aiutarli, o peggio ancora che siano proprio loro la causa di ciò che accade.
Il bullismo non è fatto solo di pugni o insulti urlati nei corridoi
E’ fatto di esclusioni silenziose, di sguardi che feriscono, di parole che colpiscono più di uno schiaffo. E spesso le sue tracce non sono raccontate, ma lasciate invisibili nel comportamento, nel corpo, nello sguardo di un bambino.
Il silenzio che pesa più delle parole
Quando un bambino viene bullizzato, spesso non lo dice. Non lo dice perché ha paura di peggiorare le cose, o perché si vergogna di sentirsi “debole”. Non lo dice perché a volte crede davvero che sia colpa sua.
Questo silenzio ha un peso enorme: è fatto di frasi lasciate a metà, di scuse improvvise, di occhi bassi. È il modo che un bambino ha per proteggersi. Un adulto distratto può interpretarlo come timidezza o disinteresse, ma in realtà è una barriera sottile che nasconde un grido di aiuto.
Nella mia classe c’era un bambino bullizzato
Ricordo bene un compagno di scuola che veniva preso di mira quasi ogni giorno. Non erano solo le prese in giro dirette, ma i piccoli gesti quotidiani, quelli che agli occhi di un adulto distratto potevano sembrare banali: il quaderno nascosto, la sedia spostata, le risate soffocate appena entrava in aula. Piccoli rituali crudeli che, messi insieme, costruivano una gabbia invisibile in cui era costretto a muoversi.
Lui reagiva sempre nello stesso modo: abbassava lo sguardo, stringeva le spalle e si sedeva in fondo, come se quel banco potesse diventare un rifugio. Non alzava mai la voce, non chiedeva mai spiegazioni, non implorava neppure l’aiuto degli insegnanti. Sembrava quasi rassegnato, come se l’unico modo per proteggersi fosse diventare invisibile.
All’epoca, da bambina, non avevo gli strumenti per capire. Pensavo che quel silenzio fosse indifferenza, che non gli importasse davvero. Oggi so che era esattamente il contrario: era un silenzio abitato da paura e solitudine, un silenzio che gridava senza suono. Era la sua strategia di sopravvivenza: non potendo fermare la violenza, cercava almeno di non alimentarla, di ridurla al minimo.
Solo molti anni dopo ho compreso che quel comportamento non era passività, ma un adattamento disperato. È così che funziona il bullismo: costringe la vittima a modellarsi sull’ambiente, a rinunciare a una parte di sé pur di non attirare ancora più attenzioni negative. E quello che a noi sembrava un semplice “fare finta di niente” era, in realtà, un disperato tentativo di restare intero dentro mentre fuori veniva frammentato giorno dopo giorno
Le tracce invisibili da non ignorare
Un bambino raramente ti dirà apertamente “sto subendo bullismo”. Più spesso, lascerà cadere piccoli indizi, comportamenti che sembrano casuali ma che, messi insieme, raccontano una sofferenza profonda. Sono tracce invisibili, segni sottili che non gridano, ma chiedono di essere riconosciuti. Imparare a leggerli è il primo passo per offrire protezione e sostegno prima che la ferita diventi cicatrice.
1. Cambiamenti emotivi improvvisi
Un bambino allegro che diventa improvvisamente taciturno. Un adolescente che prima rideva e scherzava e ora si chiude in camera. Questi sbalzi d’umore, se persistono, non sono semplici “capricci dell’età”. Sono il segno che dentro qualcosa sta cambiando.
Il bullismo genera ansia e tristezza costanti. Il sistema nervoso resta in allerta, e questo si traduce in irritabilità, pianti improvvisi, scatti di rabbia o apatia totale. È come se il bambino non avesse più lo spazio interno per vivere con leggerezza.
2. Calo nel rendimento scolastico e perdita di interesse
La scuola, per chi subisce bullismo, smette di essere un luogo di apprendimento e diventa un campo di battaglia emotivo. Non stupisce che il rendimento scolastico cali: la mente è troppo occupata a gestire la paura e l’ansia.
Un bambino bullizzato può sembrare distratto, poco motivato, “pigro”. Ma non si tratta di mancanza di volontà: è che la sua energia psichica è interamente consumata dalla necessità di sopravvivere emotivamente ogni giorno.
3. Disturbi psicosomatici
Il corpo spesso parla quando le parole non trovano spazio. Mal di pancia ricorrenti, mal di testa improvvisi, nausea, insonnia, incubi: sono i segnali tipici di un sistema nervoso che vive in allarme costante.
Questi disturbi sono reali, non finzioni. Quando un bambino chiede spesso di restare a casa da scuola per “non sentirsi bene”, è necessario fermarsi e osservare: dietro quel dolore fisico può nascondersi un dolore emotivo ancora più grande.
4. Isolamento sociale e ritiro
Il bambino che non vuole più andare alle feste di compleanno. L’adolescente che si rifiuta di uscire con gli amici o trova sempre una scusa per non partecipare alle attività. L’isolamento non è quasi mai una scelta spontanea: è una difesa.
Chi subisce bullismo impara che stare con gli altri significa correre il rischio di essere ferito. Allora preferisce chiudersi, restare nel suo mondo, rinunciare a relazioni che potrebbero rivelarsi dolorose. Ma questa solitudine diventa un circolo vizioso che alimenta ancora di più il senso di inadeguatezza.
5. Frasi di svalutazione e senso di colpa
“Se mi prendono in giro forse lo merito.”
“Forse sono io il problema.”
Quando un bambino comincia a parlare così, significa che il bullismo non è più solo esterno, ma è penetrato dentro. Ha iniziato a identificarsi con ciò che gli altri dicono di lui, a credere che le cattiverie siano una verità sul suo valore. È questa la ferita più profonda: l’autostima che si sgretola sotto il peso della colpa.
Perché il bambino tende a normalizzare
Uno degli aspetti più invisibili e più devastanti del bullismo è la normalizzazione.
Normalizzare significa trasformare la violenza in regola interna: non pensare più “mi stanno facendo del male”, ma “sono io che me lo merito”.
È un meccanismo che nasce per difesa: di fronte a un dolore ripetuto, la mente del bambino preferisce dargli un senso, anche a costo di auto-colpevolizzarsi.
Sul piano psicoanalitico, è una forma di introiezione: la voce del persecutore diventa parte del dialogo interiore. Sul piano neurobiologico, il cervello in età evolutiva tende a codificare ciò che si ripete come schema stabile, anche se dannoso. Sul piano emotivo, normalizzare diventa un anestetico: se penso che “va così per tutti”, soffro di meno… ma smetto anche di credere che possa esistere un’alternativa.
Il risultato è un paradosso: il bambino si protegge momentaneamente, ma a lungo termine si condanna a sentirsi indegno, a rinunciare a chiedere rispetto.
Essere bullizzati non ha età
Il bullismo non appartiene a una sola fase della crescita: può colpire in qualunque momento del percorso scolastico. Alle scuole elementari assume spesso la forma di esclusioni dai giochi, prese in giro sull’aspetto fisico o sulla timidezza. Alle scuole medie diventa più complesso: il gruppo inizia a contare più della famiglia, e l’adolescente che non si conforma viene facilmente etichettato, isolato o ridicolizzato. Al liceo, infine, il bullismo si fa più sottile e talvolta più crudele: non servono spinte o scherzi pesanti, bastano il silenzio collettivo, l’ironia pungente, la diffusione di voci o immagini sui social.
In ogni fase della vita, ciò che cambia non è la gravità della ferita, ma il modo in cui viene vissuta: un bambino piccolo la traduce in paura, un adolescente in vergogna, un liceale in profonda svalutazione di sé. Ma il filo rosso resta lo stesso: sentirsi soli, non visti e non protetti.
I social come estensione del bullismo
Se un tempo il bullismo finiva al suono della campanella, oggi non è più così. Con i social, la violenza verbale e l’umiliazione possono seguire un ragazzo ben oltre i confini della scuola. Un commento sprezzante sotto una foto, un meme creato per ridicolizzare, un gruppo WhatsApp in cui si viene esclusi o derisi: il bullismo digitale non ha pause, non lascia tregua.
Il problema dei social è che rendono tutto potenzialmente pubblico: l’umiliazione non è più limitata a un’aula o a un cortile, ma diventa visibile a decine, a volte centinaia di persone. Questo amplifica la vergogna e il senso di impotenza. Inoltre, il contenuto online non si cancella con facilità: ciò che viene scritto o condiviso può restare, alimentando la sensazione che la derisione non abbia fine.
Dal punto di vista psicologico, il cyberbullismo mina ancora più profondamente l’autostima perché tocca uno degli aspetti più delicati dell’adolescenza: l’immagine sociale. Nei social il ragazzo costruisce la sua identità pubblica; se quella viene attaccata, la ferita non riguarda solo il presente, ma anche il senso stesso di chi si è.
Quando la ferita diventa copione di vita
Se non interrotto, questo processo accompagna la persona anche da adulta. Chi ha normalizzato il bullismo tende a normalizzare partner svalutanti, capi autoritari, amicizie unilaterali. Non perché non veda la sofferenza, ma perché dentro di sé ha imparato che “così funziona il mondo”.
- Nelle relazioni sentimentali sceglie spesso partner critici o svalutanti.
- Nel lavoro accetta ruoli che non lo valorizzano, convinto di non meritare di meglio.
- Nella vita sociale evita situazioni di esposizione, perché la vergogna è diventata un riflesso automatico.
Il cervello, in questo senso, funziona come un archivio: ciò che è stato ripetuto nell’infanzia viene registrato come prevedibile, quindi “sicuro”. Ecco perché le persone tendono a restare fedeli a schemi che le fanno soffrire: non sono scelte consapevoli, ma tracce invisibili che orientano la percezione di sé e degli altri.
Il bullismo non è mai solo un episodio scolastico
È un’esperienza che rischia di diventare identità. Un bambino che normalizza la derisione può diventare un adulto che normalizza relazioni tossiche, capi autoritari, amicizie che feriscono. Non perché lo desideri, ma perché la sua mente ha imparato che quello è il posto che merita.
La buona notizia è che questi copioni si possono riscrivere. Possiamo insegnare al nostro sistema nervoso, alla nostra mente e al nostro cuore, che l’amore e il rispetto non si guadagnano attraverso il dolore. Possiamo rompere la catena delle tracce invisibili e aprire spazi nuovi, dove sentirsi finalmente degni di essere amati senza condizioni.
È proprio questo il viaggio che propongo nel mio libro “Il mondo con i tuoi occhi”: un percorso per riconoscere le ferite nascoste, comprendere come hanno influenzato le nostre relazioni e trasformarle in forza. Perché guarire è possibile, e a volte tutto inizia dal coraggio di vedere ciò che fino a ieri era rimasto invisibile. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon
E se ti va, seguimi sul mio profilo Instagram: @anamaria.sepe.
Ti aspetto lì per continuare il viaggio