Darwin apprezzerebbe molto chi “non è al passo” in questa società

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Dott.ssa in biologia e psicologia. Esperta in genetica del comportamento e neurobiologia. Scrittrice e founder di Psicoadvisor

Una delle frasi più abusate e travisate della storia è senza dubbio: “sopravvive il più forte”. Attribuita a Charles Darwin, questa espressione ha alimentato per decenni una visione della vita basata sulla competizione spietata, sul dominio, sull’individualismo. Ma questa non è l’essenza dell’evoluzione. Anzi, è una delle sue letture più miopi. È importante chiarirlo perché è la base, è l’ABC per riuscire a coltivare in ogni individuo sentimenti di disprezzo e resa verso ogni forma competitiva! Un pensiero interiorizzato e costante che possa dirci: «io non ci sto, io non partecipo. Rallento. Non compro per apparire. Non consumo. Non mi consumo perché vivo!».

Premessa personale

Questa società mi spaventa. Mi spaventa perché premia chi si spinge oltre se stesso fino a frantumarsi. Chi si impone, compete, ostenta, calpesta… e viene considerato sano solo perché ‘funziona’ o ‘produce’. Ma funzionare ed essere produttivi in un contesto malato non è salute, non è vivere. È sopravvivenza. È dissociazione. Spesso ciò che dall’esterno chiamiamo successo è solo un adattamento a un ambiente tossico. E lasciatemelo dire, è proprio l’adattamento ai contesti malati la vera radice del disagio psicofisico, le cause della deriva a cui stiamo assistendo oggi. E allora no, non sei debole se senti di “non stare al passo”, non sei sbagliato o inferiore. Forse è solo che la tua può ancora chiamarsi “vita”. Essere sani, non significa adattarsi a un contesto malato.

L’idea tossica che “vince il più forte” è diventata la lente con cui guardiamo anche noi stessi

Nella società contemporanea, il successo è spesso misurato in termini di prestazione, popolarità, potere, visibilità. Siamo diventati gli animali da competizione più spietati della Terra. Ma non era questo il messaggio dell’evoluzione. Non è il più forte che sopravvive, ma chi sa ascoltarsi.

Ognuno di noi ha tanto, ha molto, più di ciò che crede… ma è cieco perché ha imparato a guardarsi con la lente del paragone sociale, distruttivo e screditante. Le storie come quelle di Riki o Sangiovanni, giovani cantanti italiani divenuti famosi a seguito della partecipazione ad Amici, sono un esempio da attenzionare perché riguardano tutti noi, molto da vicino.  Riki e Sagiovanni, dopo il grande successo ottenuto con la loro musica, sono piombati entrambi in un periodo buio di depressione, proprio perché stavano aderendo a un modello culturale logorante, che non li rappresentava. Essere amati, popolari, di successo, avere contratti discografici o far parte del cast della serie tv “Vita da Carlo”, non basta quando sei lontano da te stesso.

Bisogna rallentare. Porsi domande e avvicinarsi quanto più possibile alla propria autenticità. Altrimenti la depressione è dietro l’angolo. La depressione non è solo un malessere personale, è un atto profondamente evolutivo. Significa interrompere il circuito della selezione culturale distruttiva e aprirsi a una forma di adattamento nuova: l’autenticità, la riconnessione con la propria verità interiore, la cooperazione con se stessi.

La depressione non è cedimento, è un atto evolutivo

Il modello competitivo che ci hanno insegnato — quello in cui bisogna primeggiare, sovrastare, eccellere, e meritare qualcosa che altrimenti non ti spetterebbe di diritto — non è sopravvivenza, è autodistruzione. La vera evoluzione è un processo che nasce per cambiare rotta, parla di chi smette di aderire al concetto di “successo/forza” secondo i parametri imposti e diventa sensibile, autentico, vulnerabile e coraggioso.

È dunque chiaro che la depressione non è un cedimento, ma un atto evolutivo. È il sintomo che qualcosa non va nel sistema, ma anche il primo passo per uscirne. La depressione, infatti, è l’unico modo che il corpo ha per dirti «fermati! Smettila». È il sistema nervoso che, dopo un sovraccarico, trova l’unico modo per continuare a sopravvivere: spegnersi, rallentare, conservare energie. La depressione, infatti, anche da un punto di vista clinico è vista come l’esito di una condizione di stress cornico. Il corpo che cerca di dirti «non sto funzionando male. Sto solo reagendo a qualcosa che mi ha fatto troppo male, per troppo tempo, senza che nessuno se ne accorgesse». È un invito all’auto-ascolto.

Evoluzione come ascolto, non come sopraffazione

Proprio come in natura, anche quando abbiamo a che fare con la mente umana vince chi trova forme di convivenza armoniosa con le proprie emozioni, i propri limiti, le proprie ferite del passato. E così come la selezione naturale favorisce i sistemi cooperativi — i branchi che si proteggono, le balene che crescono i piccoli insieme, i primati che si accudiscono a vicenda — anche la nostra mente ha bisogno di accoglienza, non di guerra interna o competizione tra parti che perseguono obiettivi diversi.

Darwin e il malinteso della competizione

Innanzitutto, Darwin non ha mai scritto che sopravvive “il più forte” nel senso competitivo o autoritario del termine. Nella sua opera «L’origine delle specie», Darwin parlava piuttosto di “sopravvivenza del più adatto” (survival of the fittest), concetto che fu coniato inizialmente dal filosofo Herbert Spencer. Tuttavia, anche “più adatto” non va letto come “più potente”, bensì come colui che riesce ad adattarsi meglio all’ambiente, anche e soprattutto attraverso forme di cooperazione.

Non vince il più forte. Vince chi sa tornare a sé

La natura non seleziona il più competitivo o il più aggressivo: è la società a farlo! La natura seleziona chi sa stare in equilibrio con l’ambiente, chi si adatta in modo armonioso, chi collabora. La selezione sociale, quella che verte su dettami culturali rigidi e consumistici, invece, ci spinge a mostrarci invincibili, a vincere sempre, a nascondere la vulnerabilità. È questo modello socio-culturale che sta ammalando le persone — non è la natura umana.

La cooperazione è la vera forza evolutiva

Numerosi studi etologici e antropologici mostrano che le specie più evolute sono quelle che cooperano, condividono risorse, si proteggono a vicenda. Le comunità di primati, per esempio, prosperano grazie a legami affettivi e cooperativi; i branchi di lupi sopravvivono non perché il lupo alfa domina, ma perché il branco si muove come un organismo unico. E gli esseri umani? Le nostre dotazioni genetiche ci predispongono fortemente alla comunicazione, all’ascolto, alla comprensione, all’empatia, tutti fattori evolutivamente vantaggiosi proprio perché ci permettono di costruire comunità resilienti. Cosa sta distruggendo tutto? La cultura che crea competizione a oltranza.

L’ideologia secondo cui “vince il più forte” ha nutrito l’individualismo tossico del capitalismo estremo, del darwinismo sociale e delle logiche di esclusione. In nome di questa interpretazione errata, si giustificano diseguaglianze, sopraffazioni, abbandono dei più fragili. Ma questa non è evoluzione. È regressione.

Il vero paradigma: il più forte aiuta il più debole, e vincono entrambi

Nel mondo biologico, aiutare il più debole non è un lusso etico, è una strategia di sopravvivenza. Le società che sostengono i membri più vulnerabili diventano più stabili, più creative, più prospere e soprattutto, più durature. Questo vale per gli animali, ma ancor di più per noi esseri umani. La la selezione naturale, infatti, non cerca il vantaggio di pochi singoli a scapito di tanti ma dell’intera specie, della collettività. Non crea squilibri ma progressi condivisi. Possiamo dunque riscrivere la logica darwiniana in modo più fedele, più maturo e più umano:

Non vince il più forte. Vince chi si prende cura, chi costruisce legami, chi si adatta senza schiacciare. Vince chi sa che non si va lontano da soli. Vince chi smette di mentire a se stesso interiorizzando norme sociali implicite a scapito di sé.

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Autore: Anna De Simone, psicologo esperto in psicobiologia
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