Ci sono genitori che vivono la crescita dei figli come un territorio fragile da presidiare. Ogni passo del bambino viene osservato, previsto, accompagnato, talvolta anticipato. La gran parte di volte ciò si verifica per ansia e paure ma non sempre è così. Talvolta, alla radice di quel bisogno di essere sempre presenti, c’è un vuoto più profondo: quello del sentirsi utili solo quando si è necessari. In questo caso, i genitori investono del figlio l’impossibile compito di renderli felici. Il messaggio implicito è questo: io sarò felice e soddisfatto attraverso te.
Le loro premure, infatti, diventano un modo per costruirsi un’identità: quella di padre o madre totale. Così, controllare, proteggere, guidare il figlio, condizionarne ogni scelta (in modo implicito e subdolo) diventa anche un modo per sentirsi importanti, persino indispensabili. È come se, prima della nascita del figlio, non ci fosse stato uno spazio chiaro dove il genitore si sia sentirsi pienamente vivo come “persona a sé”. Ed è proprio questo bisogno — non sempre riconosciuto — a far sì che il legame genitoriale non sia solo “nutrimento” per il figlio, ma anche l’unica fonte di senso per il genitore.
Quando l’amore si intreccia al bisogno, non concede libertà: il legame trattiene e ferisce
Ma quando l’amore si intreccia al bisogno, il rischio è che il figlio venga trattenuto, invece che accompagnato. Che venga tenuto vicino non per ciò che è, ma per ciò che rappresenta: la fonte attraverso cui il genitore riesce a sentirsi necessario nel mondo.
L’iperprotezione, dunque, non è solo un mero eccesso di zelo. È un modello educativo fondato sul timore, ma anche – in alcuni casi – sull’inconsapevole desiderio di colmare un vuoto. E, come tutti i modelli che non nascono da un ascolto autentico dell’altro, ma da un bisogno proprio, genera ciò che si voleva evitare. È qui che prende forma la profezia che si autoavvera: un circolo vizioso che, partendo da una convinzione distorta, finisce per creare esattamente quella realtà temuta dal genitore.
Il seme della paura (o del vuoto): il genitore apprensivo
Il genitore iperprotettivo non nasce tale per caso. Spesso alle radici del suo comportamento c’è una storia personale fatta di insicurezze, ferite affettive, senso di impotenza o esperienze di abbandono. Inconsapevolmente, trasporta nel rapporto col figlio queste antiche ferite, rivivendole in una forma mascherata: quella della “cura eccessiva”.
“Ho paura che si faccia male, che resti deluso, che non sia in grado di affrontare la vita”, pensa. E allora interviene, previene, gestisce, controlla. Il figlio diventa il territorio dove si proiettano le ansie non elaborate del genitore. Ma ogni volta che un genitore sostituisce l’autonomia del figlio con la propria presenza soffocante, gli sta anche dicendo – implicitamente – “Tu da solo non puoi farcela”.
Nel tempo, questo messaggio si imprime nel profondo del bambino, diventando la lente con cui guarda se stesso.
La profezia che genera insicurezza e fragilità nel figlio
- Il genitore teme che il figlio sia fragile.
- Lo protegge da ogni difficoltà.
- Il bambino non impara ad affrontarle.
- Diventa insicuro e dipendente.
- Il genitore dice: “Vedi? Senza di me non ce la fa.”
- Si intensifica il controllo.
Il figlio che interiorizza l’insicurezza. Un bambino cresciuto sotto l’ala eccessivamente protettiva di un genitore apprensivo viene privato della possibilità di sperimentare, sbagliare, cadere, rialzarsi. Gli vengono tolti gli strumenti per scoprire quanto è capace. E così, passo dopo passo, quella che era solo una paura del genitore diventa la verità identitaria del figlio.
Quando il bambino non ha mai avuto modo di confrontarsi davvero con se stesso, di esplorare l’errore in prima persona – senza affidarsi all’esterno, “se mia madre riuscirà a condonare questo errore, lo farò anche io” -. Se non ha avuto modo di esplorare liberamente la complessità delle proprie emozioni (perché troppo impegnato a interrogarsi sulle emozioni che innescava nel genitore), sviluppa una percezione fragile di sé. Ogni sfida può sembrare insormontabile. Ogni decisione, un rischio da evitare.
Il genitore apprensivo, vedendo il figlio esitante, ansioso, indeciso, si sente “autorizzato” a intervenire ancora di più. “Devo esserci, lui non ce la fa da solo”. E così il ciclo si autoalimenta. Ma non si tratta di realtà: si tratta di un copione che è stato scritto in anticipo e che, nella relazione, si conferma ogni giorno.
La profezia che genera distanza e ribellione
- Il genitore è mosso dalla paura.
- Protegge il figlio da ogni difficoltà.
- Il bambino si sente oppresso.
- Allora diventa ribelle e si oppone in modo estremo al genitore perché è l’unico modo per sottrarsi alla forte oppressione.
- Il genitore dice: “Vedi? Ho un figlio imprudente, devo essere più vigile!”
- Il genitore cerca di intensificare il controllo.
- Il figlio indurisce il contraccolpo e reagisce con ulteriore fermezza e ribellione
Non tutti i bambini reagiscono alla paura genitoriale con la dipendenza. Alcuni, crescendo, sentono su di sé il peso e l’invasività del controllo e iniziano a desiderare, con forza, uno spazio personale. Spesso si tratta di adolescenti che cominciano a ribellarsi a ogni vincolo: regole, confini, consigli. In apparenza sembrano oppositivi, scontrosi, aggressivi. Ma sotto questa corazza, c’è un bisogno vitale: essere visti come capaci, avere diritto alla propria autonomia.
In questo caso, la profezia si realizza sotto un’altra forma: il figlio compie azioni impulsive, talvolta rischiose, pur di sfuggire al controllo. Ma il genitore non coglie la dinamica sottostante. Vede solo l’irrequietezza, il comportamento “sbagliato”. E sente che il proprio intervento deve intensificarsi. Così, più controlla, più il figlio fugge. E più il figlio fugge, più il genitore controlla. Ancora una volta, la paura iniziale si autoalimenta.
Tra ribellione e insicurezza
Spesso, però, questa ricerca di sé si mescola alla dipendenza. Questo non è raro perché parliamo pur sempre di persone che da bambini hanno assorbito involontariamente un messaggio: «da solo non puoi farcela». Per quanto si possano ribellare, ormai quella voce è entrata a far parte di loro. Finché non sarà elaborata e neutralizzata, sarà la base di emozioni contrastanti. Così il figlio inizia a sperimentare sensazioni ambivalenti (paura di non farcela da solo e quindi bisogno eccessivo dell’altro. Paura di essere invaso dall’altro espressa in forma di rabbia e quindi bisogno di indipendenza e spazio).
Le profezie sono cicli che si autoalimentano
La forza delle profezie che si autoavverano sta nella loro invisibilità. Si travestono da realtà. Fanno sembrare “vero” qualcosa che, in realtà, è stato co-costruito da dinamiche inconsapevoli. Quando un genitore apprensivo si convince che il figlio sia fragile, lo tratta come tale. E trattandolo come tale, lo rende fragile. Oppure, se teme che il figlio sia fuori controllo, agisce con ipercontrollo. E quel figlio, per respirare, finirà col diventare ingestibile.
In entrambi i casi, il punto di partenza è lo stesso: la paura e il bisogno. E ciò che si crea, è una realtà che conferma l’idea iniziale.
La domanda chiave che dovrebbero porsi i genitori
Un genitore apprensivo dovrebbe fermarsi e chiedersi: “Sto davvero proteggendo mio figlio o sto cercando uno scopo? Sto proteggendo mio figlio per il suo bene… o per placare le mie paure?” “Ho bisogno di sentirmi necessario per sentire che sono degno di esistere? Da solo non mi basto?“
Queste domande, se accolte con onestà, possono aprire uno spazio interiore immenso. Spesso il bisogno di protezione non nasce dalla realtà del figlio, ma da un antico bisogno del genitore: quello di sentirsi al sicuro, di non essere abbandonato, di non dover affrontare la propria ansia davanti all’imprevedibilità della vita.
Ci sono genitori che, in fondo, cercano nei figli il contenimento emotivo che non hanno mai ricevuto. E allora il controllo diventa un modo per evitare di sentire l’angoscia del vuoto, dell’abbandono, del cambiamento, della crescita che inevitabilmente separa.
Come si può rompere il ciclo?
Un percorso di psicoterapia individuale, in questi casi, è essenziale. Per il genitore, il ciclo della profezia che si autoalimenta, si spezza soltanto:
- Accettando che l’amore non è sinonimo di controllo.
- Riconoscendo le proprie paure, senza farle ricadere sul figlio.
- Offrire strumenti e fiducia, anche a costo di vedere il figlio sbagliare, crescere, cercare la propria autonomia.
- Sostenere senza sostituirsi.
- Imparare a tollerare il rischio come parte della crescita.
Per il figlio cresciuto con genitori apprensivi:
- Lavorare sul proprio senso di valore, che non dipende dalla ribellione né dall’approvazione altrui.
- Imparare a fidarsi di sé, delle proprie decisioni, anche quando non sono perfette.
- Distinguere tra la voce del genitore interiorizzato e la propria voce autentica.
- Riconoscere che “essere visti” non significa assecondare o opporsi, ma mostrarsi per ciò che si è. E… quindi, dato che non ha mai avuto la possibilità di scoprirsi, concedersi finalmente lo spazio per rispondere a questa domanda: «chi sono?»
- Recuperare la libertà di esistere senza sentirsi costantemente osservati, giudicati o salvati.
Il compito di un genitore non è tenere il figlio al sicuro da tutto, ma insegnargli a stare nel mondo con fiducia, anche quando il mondo fa paura. L’iperprotezione, pur nata da un luogo d’amore misto a sofferenza, può trasformarsi in un recinto che soffoca. Ma ogni recinto può essere riconosciuto e, con il tempo, superato.
Rompere la profezia che si autoavvera significa, per il genitore, imparare a guardare il figlio come un organismo a sé, in divenire – non per una fonte di contenimento emotivo e rassicurazione. E, per il figlio, significa concedersi la possibilità di essere diverso dalla narrazione che gli è stata cucita addosso. Non fragile, non ingestibile, ma semplicemente: libero.
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Autore: Anna De Simone, psicologo esperto in psicobiologia
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