Una scena del film “We want sex”, ambientato nell’Inghilterra del 1968, che racconta la rivendicazione di un gruppo di operaie della Ford che porterà alla legge sulla parità di retribuzione, si ripresenta spesso davanti ai miei occhi.
Marito e moglie litigano furiosamente e ad un certo punto lui la ferma per dirle, guardandola intensamente e dritta negli occhi, che sta facendo del suo meglio, che sì, gli piace bere, ma non si riempie di birra tutte le sere, non fa sesso con altre donne e che in fondo non ha mai messo le mani addosso, né a lei, né ai bambini.
Lei si blocca, guarda il cielo: “oh Dio”, afferma.
“Sei un santo allora, è questo che mi stai dicendo? Perché ci tratti alla pari? Tu non bevi molto, non scommetti, stai coi figli, non ci picchi, oh come sono fortunata. Per l’amor del cielo Eddy, è come dovrebbe essere, cerca di rendertene conto. E’ come dovrebbe essere, sono diritti, non privilegi, è così facile!”. E poi corre via.
Lo guardo e sono conscia che quel dialogo, l’ambientazione e lo sfondo culturale risalgono agli anni ’70, ma qualcosa mi colpisce profondamente, come se riguardasse ancora la vita di molte donne di oggi. Quella frase: “è come dovrebbe essere”, e le emozioni che mi suscita, ritornano di continuo e fatico a liberarmene.
Siamo nel 2019 e all’uscita delle scuole alcuni papà tengono per mano i loro figli.
Ogni tanto li accompagnano a scuola, ci trascorrono del tempo e qualcuno conosce persino le loro abitudini alimentari.
Anche l’introduzione del congedo di paternità rende manifesto che ci stiamo, seppur lentamente e a fatica, allontanando dai tempi in cui nei temi dei bambini c’era scritto: “mio papà lavora”, come a voler dire che vederlo era più l’eccezione che la regola. Culturalmente, però, che il congedo sia ben visto all’interno delle realtà lavorative, è tutta un’altra questione.
Qualcosa non mi convince, nonostante i graduali cambiamenti che sfilano sotto i nostri occhi. Vedo e ascolto ancora tante, tantissime, troppe madri che dicono, con il figlio in braccio e le occhiaie permanenti, riferendosi al partner: “ma lui è bravo, un pò mi aiuta”.
Le guardo e penso, con un brivido di malessere che si arrampica lungo la schiena mescolato a compassione: “in che senso? Vuoi dire che aiuta te, nella gestione di suo figlio? Della sua casa?“.
C’è un concetto di fondo che mi è sempre sfuggito: è insito in alcuni, forse troppi uomini, ritenere ancora che la casa e i figli appartengano alle donne, una sorta di proprietà. È una vecchia storia, lo so. E’ quella vecchia storia, molto italiana, che oggi però non si può più ascoltare, ma che purtroppo spopola sottilmente o visivamente ancora in molte, troppe famiglie di questo paese.
Non voglio inoltrarmi in una lotta ideologica e femminista, tuttavia credo che ci vorrà del tempo per vedere mutato un assetto culturale così profondamente radicato, che peraltro non vedrà un’evoluzione se non a partire dall’organizzazione del lavoro e della famiglia stessa.
Mi chiedo che cosa si possa fare nel nostro piccolo, ovvero a partire dal nucleo familiare.
Noto che spesso è la rabbia ad impadronirsi delle donne di questo tempo. La rabbia muove, certo, ma in quale direzione? Portata fra le mura di casa genera soltanto conflitti senza sbocco. C’è invece una strada più mite che passa attraverso l’ascolto dei propri bisogni. Perché dico questo?
Perché le donne che vivono dentro a quell’impostazione familiare, dove i figli e la casa sono loro proprietà, sono le prime ad essere “settate” per avere il controllo di tutto e dal momento che hanno respirato quel modello, sono portate a ripeterlo piuttosto che a concepirne o concedersene uno nuovo, per quanto desiderato.
Questa impostazione mentale riduce notevolmente l’attenzione ai propri bisogni, per esempio alla stanchezza, perché in fondo è come se non fosse permessa.
Quando c’è un sovraccarico e i figli sono troppi o troppo impegnativi, non rimane che tentare di inoltrarsi per prime verso una nuova organizzazione familiare, maggiormente equilibrata per lasciarsi definitivamente alle spalle quell’immagine anacronistica di donna che si occupa di tutto.
E anche se “è come dovrebbe essere”, ovvero che quell’infinita “lista della spesa” che riguarda la casa e i figli, dovrebbe interessare entrambi i componenti di una famiglia, bisogna augurarsi di avere di fronte un partner disposto a fare un passo nonché uno sforzo ideologico e culturale in avanti. Perché, in fondo, i figli si fanno in due, di qualunque famiglia si tratti, etero o omosessuale.
Solo in due è “come dovrebbe essere”.
Cristina Radif, psicoterapeuta
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