Sentiamo spesso parlare di dipendenze affettive e di incapacità di percepire lo stare con l’altro come una risorsa per se stessi e per il progetto condiviso di vita. Ultimamente sembra sempre più diffusa la sensazione di non riuscire a mantenere un ritmo di vita condiviso e, soprattutto, di avvertire il senso di solitudine nonostante la presenza dell’altro.
La convivenza all’interno di in uno spazio, appunto, condiviso, sembra talvolta divenire più un’invasione di confini che un processo di co-costruzione, di qualcosa cioè da sperimentare insieme.
All’opposto, la presenza dell’altro può essere avvertita come assenza, come un ingombro di spazio fisico che non lascia spazio al senso di un vissuto psichico ed emotivo fondamentale per il benessere della coppia. Stare con l’altro diviene allora un qualcosa che poco ha a che fare con la relazione.
Spesso, focalizzarsi sull’assenza dell’altro o sul sentire che l’altro è presente modo inadeguato, fa spostare l’asse dell’attenzione all’esterno impedendo di centrarsi sui propri bisogni fondamentali.
Prestando attenzione solo ai comportamenti dell’altro e su quanto causi sofferenza il modo di fare inadeguato del partner, rischia di alimentare un forte senso di inadeguatezza, facendo percepire se stessi come inefficaci nei confronti della relazione stesse.
Il rischio è di auto colpevolizzarsi perdendo il senso di sé. Un senso che può essere recuperato solo se il partner riesce a riconoscere il nostro valore, riavvicinandosi nella maniera che riteniamo più opportuna. Lasciandosi andare alla fantasia di come dovrebbe essere la relazione per sentirsi appagati, la persona rischia di far i conti con la frustrazione quotidiana di non essere nella situazione tanto desiderata.
Il proprio valore è “regolato” dal comportamento dell’altro
Il perno del proprio valore è tutto calibrato sul comportamento dell’altro. Sono le reazioni del partner a decidere se sarà per me una giornata meravigliosa o un inferno nel vero senso della parola. L’umore inizia ad oscillare passando da euforia ad angoscia e tutto il mondo personale ruota sull’osservazione dell’altro, sulle aspettative tradite e sulle mancanze avvertite.
Rabbia e frustrazione lentamente prendono il sopravvento e la comunicazione inizia a vertere sulla critica, i non detti e le reazioni aggressive. Il senso di impotenza non tarda ad arrivare ed insieme ad essa una buona riduzione della stima di sé e del proprio valore.
Cosa è successo?
Capita che l’individuo si dissolva all’interno della fantasia della relazione. Capita di rimanere ancorati al ricordo emozionante di un vissuto trascorso perdendo di vista il presente ed i nuovi bisogni.
Succede insomma che attribuiamo all’altro la responsabilità della propria felicità, perdendo progressivamente i confini personali ed il senso dell’autentica realizzazione personale.
L’impossibilità di avvertire i confini personali porta ad un invischiamento con l’altro, o meglio, con la fantasia dell’altro costruita su un ricordo particolarmente carico e denso di emotività. L’attesa snervante che l’altro possa tornare ad essere per come mi faceva sentire appagato porta a dilapidare tutte le energie psichiche e fisiche fino al punto da demotivare sotto ogni punto di vista. Vengono a mancare le energie, si perdono di vista gli interessi e, soprattutto, viene a mancare la capacità di provare piacere.
Cosa si può fare?
E’ importante tornare ad essere con il proprio corpo, centrando l’attenzione sui propri bisogni, riconoscendoli e validarli.
L’altro è una scusa. La realtà è che, all’interno della relazione, ho perso me stesso.
Un buon metodo è quello di allentare il rimuginio centrando l’attenzione sul respiro. Progressivamente è importante cominciare ad avvertire i blocchi e le tensioni corporee in modo da scioglierle attraverso le tecniche di respirazione diaframmatica.
Provando a stare in piedi con le gambe leggermente aperte e le ginocchia un poco flesse, è importante provare a sentire come avvertiamo la capacità di stare sulle proprie gambe, a vivere in modo autonomo.
- Riesco a sentirmi saldo su me stesso?
- Posso contare su me stesso o avverto un senso di fragilità?
La fase successiva è quella di provare ad esprimere le emozioni che emergono attraverso semplici esercizi da effettuare attraverso le fantasie guidate e le meditazioni dinamiche.
In seguito, è possibile esprimere a livello corporeo le nostre intenzioni, mimando azioni legate al prendere, al lasciare, all’aprire, al chiudere, ecc. Ogni atto intenzionale richiama alla mente una precisa immagine legata ai vissuti emotivi.
Si tratta di riuscire a verbalizzare tutto ciò che emerge in modo da lavorarci attraverso un lavoro psicologico e consentire alla persona di integrare quegli aspetti di sé lasciati in ombra perché ritenuti scomodi o inaccettabile.
Dare voce alle emozioni sopite, anche quelle che ci neghiamo perché sentiamo negative o inopportune, consente di riscoprirsi diversamente, con più fiducia e sicurezza.
E’ proprio il lavoro corporeo che consente di sciogliere e di sbloccare, di far emergere vissuti e di rielaborare antichi vissuti che hanno, con il tempo, alimentato false credenze su noi stessi, minando profondamente la stima di sé e convincendoci di non essere adeguati.
Il lavoro attraverso il respiro ed il gesto intenzionale aiuta a smantellare i giudizi su noi stessi, frutto delle critiche esterne alle quali abbiamo dato credito e che adesso rischiano di gravare come un peso invalidante sulle nostre spalle.
Il processo di liberazione nasce e si sviluppa nel momento in cui prendiamo coscienza che il corpo può essere veramente il ponte che lega il mondo emotivo con quello delle idee.
A cura di Andrea Guerrini, psicologo e pedagogista
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