Lo sport: una fonte di benessere o un sintomo?

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L \\\'Autore di questo articolo è uno psicologo o psicoterapeuta.
Illustrazione: Kirk Wescom

Il corpo e la mente sono legati l’uno all’altra e si influenzano vicendevolmente. Il motto latino “Mens sana in corpore sano” indicava, già dai tempi antichi, come la cura del corpo fosse strettamente connessa al benessere psicologico.

L’attività fisica incrementa il benessere psicologico, fatto che, la maggior parte di noi, almeno in un periodo della vita, avrà sperimentato sulla propria pelle.

Fra i benefici connessi all’attività fisica troviamo:

  • aumento della fiducia e della consapevolezza di sé
  • miglioramento del tono dell’umore con riduzione della depressione e dell’ansia
  • cambiamento positivo nella percezione di sé
  • incremento dell’energia e dell’abilità nel far fronte alle attività quotidiane
  • intensificazione del piacere per l’esercizio fisico e per i contatti sociali
  • maggior stato di prontezza e di chiarezza

Scorrendoli qualcuno si sarà ritrovato in uno o più di essi.

Quando osservo uno sportivo, specialmente un agonista, mi incuriosisce conoscere il significato che attribuisce allo sport. Non è sempre detto infatti che l’attività fisica produca gli effetti benefici sopra indicati.

Dipendenza da sport

Tutto dipende dal “come”, tanto che esiste, a mio avviso, una scala ove ad un estremo c’è lo sport inteso come fonte di benessere psico-fisico, con tutti i giovamenti sopra descritti, e ad un altro invece l’attività fisica come un vero e proprio atto compulsivo, ovvero una tipologia di disturbo che prende il nome di “Exercise addiction”.

Si tratta di una forma di dipendenza psicologica e/o fisiologica che generalmente coesiste con i disturbi alimentari, ambito in cui il movimento è legato esclusivamente alla perdita di peso corporeo, ma non necessariamente.

Quando uno sport rientra nelle dipendenze, assume le sembianze di un vero e proprio sintomo, con i significati che lo designano:

  • può essere una fuga dalla famiglia o da una relazione che non funziona
  • una modalità di negazione di un problema (“quando mi alleno non penso”)
  • può essere legato all’ossessione per la propria immagine (idea di forza, giovinezza, magrezza, virilità etc.)
  • modalità di scaricare rabbia o tensioni irrisolte e così via, fino ad arrivare a problematiche ancora più profonde.

Sono qui perché ho capito che non riesco più a fermarmi”, mi disse un ragazzo di 25 anni, diventato “schiavo” del Triathlon.
Gli occhi vitali e luminosi, un corpo asciutto, muscoloso ed energico.
Dopo alcuni incontri mi resi conto che non aveva consapevolezza del corpo, pur usandolo ogni giorno, né aveva familiarità con le sensazioni fisiche.

Utilizzava il fisico come una macchina, forzandolo in ogni direzione; mi colpì molto il fatto che in quel corpo non scorreva alcuna forma di piacere.

Compresi che c’è un enorme differenza fra una modalità di fare attività fisica, come nel caso di quel ragazzo, in cui sostanzialmente è la mente che comanda e che esige continue performance, e una forma di sport che procura, come detto sopra, quella serie di benefici percepiti; questa seconda modalità, oltre a generare piacere, può trasformarsi in un percorso di conoscenza e consapevolezza di sé, del proprio fisico, del respiro, dei limiti e delle potenzialità del corpo e quindi un’attività che diventa un’esperienza a tutto tondo per la persona.

Il corpo come mero mezzo per raggiungere gli obiettivi della mente

Alcune forme di competizione quali l’Ultra-maratona, l’Ultra-trail e l’IronMan, portano invece il corpo a sperimentare la fatica fino a livelli estremi e, sia chiaro, anche questo può costituire un’esperienza. Tuttavia, con la diffusione di queste discipline sportive, l’asticella del limite si è alzata notevolmente, lo si vede già dal nome “ultra” che denota un “oltre”, un “di più”.

Si pensi al Tor de Geants, una delle gare di corsa in montagna più dure al mondo e che richiama persone da ogni parte del pianeta. Si tratta di un anello che si compie di corsa fra i rilievi della Valle d’Aosta, e che è costituito da un percorso di 330 km totali con 24.000 metri di dislivello, il tutto da compiersi entro un tempo limite di 150 ore, altrimenti si è squalificati. Faccio fatica a rendermi conto di cosa significhino 24.000 metri di dislivello. Le persone corrono di notte con la pila frontale e chi impiega 5 giorni a completarlo dorme, in media, complessivamente 10 ore (10 ore in 5 giorni!).

Oppure si pensi all’Ironman, distanza estrema del Triathlon caratterizzata dall’insieme di tre discipline, nuoto, ciclismo e corsa, così strutturata: 3,86 km di nuoto, 180 km in bicicletta e 42,195 km di corsa (ovvero la distanza della maratona). Anche in questo caso è difficile soltanto immaginarle tali distanze.

Il corpo si misura con i propri eccessi e non stupisce che queste tipologie di gara portino le persone a sviluppare forme di dipendenza patologiche che spingono a porsi obiettivi sempre più alti fino a che la situazione non scappa di mano o semplicemente il corpo non è più in grado di stare al passo con gli obiettivi che la testa pone.

La dipendenza può svilupparsi dal solo fatto che, per allenare il fisico a tollerare quelle dosi di fatica, talvolta si deve dedicare allo sport lo stesso tempo che si trascorre al lavoro.

40 anni fa chi correva una maratona faceva strabuzzare ai più gli occhi dallo stupore, oggi 40 km di corsa non sono più considerati un obiettivo ambizioso, ma un punto di partenza per allenarsi a gare ben più impegnative; c’era un solo Patrick De Gayardon, ed era famoso proprio per le sue spettacolari prestazioni, oggi ce ne sono tanti e molte sono le persone che si lanciano in attività estreme, e anche questo indica che varcare i limiti non è più una prerogativa di pochi.

In conclusione, qualcuno queste gare le avrà pure inventate e, al di là della “mens” più o meno sana che si nasconde dietro a simili iniziative, mi sembra rispecchino un messaggio che la società invia di continuo e non soltanto attraverso lo sport, ovvero che tutto è possibile. I tempi moderni richiedono sempre più agli individui di andare oltre e, quando ci si è arrivati, la sfida consiste nel proseguire per un ulteriore “ultra”.
In realtà è importante continuare a vivere l’esperienza del limite perché fa sentire umani, cosa che, volenti o nolenti, continuiamo ad essere.

Psicoracconto di Cristina Radif, psicoterapeuta
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