Perché è importante parlare al neonato

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Dott.ssa in biologia e psicologia. Esperta in genetica del comportamento e neurobiologia. Scrittrice e founder di Psicoadvisor
Parlare al neonato è di fondamentale importanza: le ricerche mostrano una correlazione tra sviluppo cognitivo e interazioni.

I genitori hanno un’immensa responsabilità: stanno contribuendo a costruire una mente che ben presto riuscirà a concettualizzare il mondo, riuscirà a pensare al presente e al passato, apprenderà in che modo definire sé e l’altro.

Lo sviluppo del bambino: non tutto è deciso alla nascita

Nell’introdurvi la teoria neurobiologica dell’attaccamento vi ho spiegato che l’ambiente psicologico e, in particolare l’ambiente affettivo che si instaura con il legame materno, ha un forte impatto sullo sviluppo del sistema nervoso centrale del bambino. Le attuali ricerche scientifiche fanno emergere sempre più evidenze sulle complesse interconnessioni presenti tra ambiente psicologico, neurosviluppo e genetica.

Quando si parla di genetica e di neurosviluppo, infatti, non tutto è già stato deciso alla nascita. Le influenze ambientali sono molteplici e significative. Per esempio, una recente ricerca pubblicata sul numero del 20 gennaio 2021 del Journal of Neuroscience (si Lucy King e colleghi della Stanford University) ha evidenziato come le interazioni caregiver-bambino influenzano lo sviluppo delle reti neurali alla base del linguaggio.

In particolare, lo studio sperimentale (condotto su bambini di 5-8 mesi) ha documentato che lo sviluppo di specifiche reti neurali deputate al linguaggio è influenzato non tanto dall’esposizione passiva alle parole degli adulti (il semplice ascolto), quanto dai complessi scambi di espressioni verbali, gesti, sorrisi e sguardi. In parole semplici, non è la mera esposizione al suono di una parola a essere rilevante nell’apprendimento del linguaggio quanto la qualità degli scambi a cui i bambini partecipano.

Parlare ai neonati fin dalla nascita

Raccontare la “storia della buonanotte” è una pratica salutare fin dai primi giorni di vita del bebè. Parlare al neonato, con tono tranquillo e mai arrabbiato, riuscirebbe a potenziare lo sviluppo cerebrale e preparare il bambino al linguaggio, all’attenzione e all’ascolto attivo.

Gli effetti di questa pratica, stando ai ricercatori, sembrerebbero essere tangibili almeno fino ai 6 anni di età. Un ulteriore conferma arriva dalla Stanford University e dal team di ricerca guidato dalla psicologa Anna Fernald. Lo studio ha concluso che chiacchierare con i neonati migliora nel bambino la comprensione di come funziona il mondo; quando interagiamo, infatti, sono coinvolti tutti i nostri organi nello scandire un ritmo di scambio.

Ogni scambio, ogni interazione, dà qualcosa al neonato. I genitori hanno un’immensa responsabilità: stanno contribuendo a costruire una mente che ben presto riuscirà a concettualizzare il mondo, riuscirà a pensare al presente e al passato.

Troppo spesso i genitori sottovalutano la mente dei bambini e ancora di più quella dei neonati. In realtà, i neonati hanno una spiccata capacità di elaborare le informazioni che provengono dall’ambiente esterno: l’umore materno, la prossimità, il contatto, il distacco, le assenze, il linguaggio verbale e para-verbale.

Lo studio ha osservato bambini in sviluppo dalla nascita fino ai 6 anni. Il team ha concluso che i bambini sviluppano maggiori capacità verbali e mnemoniche quando i loro genitori li coinvolgono in conversazioni su cose che i bambini possono trovare interessanti, anche usando un linguaggio più complesso. Altri studi hanno dimostrato che parlare ai neonati migliora, in generale, le capacità cognitive del bambino.

Le app educative e l’esposizione protratta ai display di smartphone, tablet e tv

Porre bambini davanti alla TV o dargli un iPad che produce suoni e parole, non sortisce il medesimo effetto di una conversazione. Sono molte le applicazioni educative dedicate al mondo dei bebè, eppure queste hanno un’enorme carenza. Sono le interazioni relazionali a fare la differenza.

Spingere un bambino davanti alla TV o dargli un’iPad con cui giocare non può essere considerato il sostituto di una conversazione, anzi, tale condotta, se sistematicamente protratta, potrebbe persino avere effetti dannosi sullo sviluppo del linguaggio e del sistema affettivo dei bambini. Anche il team di ricerca della Florida Atlantic University ha raggiunto queste conclusioni.

I bambini sono eccellenti imitatori

I bambini sono ottimi imitatori. Un neonato è in grado di riprodurre le smorfie e le espressioni facciali dell’adulto. Un neonato, già a sei settimane, è capace di un’imitazione sofisticata. Se l’adulto sporge la lingua a da un lato, per esempio, il bambino riesce a fare lo stesso. E’ chiaro che i neonati hanno una percezione e rappresentazione propria di sé e del mondo che li circonda.

Noi umani siamo dotati di neuroni specchio (un gruppo di cellule nervose poste nei lobi temporali) che svolgono un ruolo cruciale nell’apprendimento nei primi mesi di vita. Quando vediamo qualcuno che dà un morso a un panino, in noi osservatori si attivano i neuroni specchio che mettono in moto le sequenze motorie corrispondenti (anche se non siamo noi a compiere quella sequenza motoria!). Questo fenomeno è stato osservato per la prima volta in Italia dal neuroscienziato Giacomo Rizzolatti. La presenza di questo gruppo di neuroni può spiegarci, almeno in parte, come un neonato riesca ad essere un perfetto imitatore della realtà di come egli la percepisce (ma non di com’è realmente).

L’interazione tra il neonato di poche settimane e il suo caregiver (generalmente la madre) si fonda in gran parte sull’imitazione della mimica materna da parte del neonato.

Un neonato di sei settimane è già capace di rispondere al sorriso e alle espressioni dei genitori riuscendole a interpretare: se un adulto lo fissa in modo impassibile, con un viso inespressivo, il neonato non trovando segnali rassicuranti può sperimentare angoscia, disperazione o addirittura arrivare a piangere. Questo ci svela molto sulla sensibilità e le capacità di elaborazione di un neonato!

Nell’interazione tra bambino e caregiver, quando il legame funziona, gli studiosi hanno messo in evidenza l’intervento dello stesso sistema ormonale che si attiva in una coppia di innamorati. Il comportamento del bambino sembrerebbe essere geneticamente determinato al mantenimento del legame con la figura di attaccamento. Con la crescita, il bambino adotterà condotte ambiente-specifiche.

Influenza sociale o genetica?

Cosa ci rende unici? Il nostro patrimonio genetico o le nostre esperienze di vita? Il dibattito scientifico più antico del mondo pone a contrasto l’eredità biologica e l’ambiente (influenze sociali). Lo psicologo Donald Hebb ha affermato che ostinarsi a voler sapere se sia più importante l’eredità o l’ambiente, è inutile quanto chiedersi se in un rettangolo conti di più la lunghezza o l’altezza dei suoi lati. Di fatto, un rettangolo non sarebbe tale senza i suoi lati. Vale lo stesso anche per la nostra unicità.

La neuropsicologia (che si è sviluppata con impeto verso la fine del XX secolo) ha superato la contrapposizione tra “biologia” e “ambiente”, affermando che questi due aspetti sono strettamente interconnessi e si influenzano vicendevolmente.

Oggi, gli studi di genetica dimostrano che l’espressione dei geni è altamente influenzata dall’ambiente. Impressioni sensoriali, così come emozioni, benessere o stress, agiscono sul sistema di segnalazione del cervello che, a sua volta, agisce sui geni.

Osservando il regno animale, si nota che la femmina del ratto, accarezzando i piccoli, stimola nel loro cervello determinati mediatori chimici, tali mediatori innescano una reazione a catena che si conclude con l’attivazione di geni che codificano per la serotonina. Questa stessa espressione genetica non si verifica nei piccoli di ratto separati dalla madre alla nascita. Ecco un esempio di interazione gene-ambiente, dove uno stimolo ambientale (legato alla relazione tra la femmina di ratto e la sua prole) può essere determinante per l’espressione genetica.

La metilazione (e demetilazione) del DNA funge da mediatore chimico dell’interazione gene-ambiente. Attraverso questo processo dinamico, l’ambiente interagisce con il genotipo che, di per sé (privo di stimoli ambientali), tenderebbe a rimanere stabile.

Un esempio umano fa riferimento alla scoperta del “gene della timidezza” che causerebbe nei bambini una timidezza patologica. In Svezia si è osservato come la stimolazione ambientale possa superare la presenza ereditaria del gene della timidezza: i bambini ai quali è stata data la possibilità di integrarsi e di non sperimentare alcun tipo di isolamento sociale, non hanno mostrato alcun tipo di timidezza a prescindere dalla storia genetica.

Craig Venter, uno dei più eminente genetisti al mondo (che ha contribuito con successo alla mappatura del genoma umano) ha affermato che «il segreto del comportamento umano è di non essere determinato dai geni ma essenzialmente dall’ambiente».

Per un neonato, per un bambino, l’ambiente sociale di elezione è il legame materno (le interazioni tra caregiver e bambino). Il neonato non conosce altro ambiente che quello relazionale e le esperienze precoci che esperisce in questa relazione, sono determinanti per scandirne lo sviluppo sia a livello biologico (abbiamo visto l’esempio delle influenze del dialogo sullo sviluppo del linguaggio, della memoria e di altre capacità cognitive) sia a livello comportamentale (dall’imitazione al sistema di attaccamento).

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