L’autolesionismo consiste nel danneggiamento del proprio corpo attraverso lesioni auto-inflitte intenzionalmente come tagli, morsi, abrasioni, graffi e pugni. Questa pratica interessa il 10% dei giovani (Doyle, Treacy, Sheridan, 2015) e all’incirca il 6% della popolazione adulta (Klonsky, 2011). Altri studi su campioni randomizzati di adolescenti riferiscono una prevalenza dell’autolesionismo del 20% (Ross et al., 2002).
L’autolesionista utilizza il corpo per trovare sollievo in un modo che può sembrare paradossale: auto-ledendosi. L’autolesionismo non rappresenta un disturbo in sé ma il sintomo di un malessere più capillare. Stando al DSM V, i comportamenti autolesivi sono annoverati tra i criteri per identificare il disturbo borderline di personalità. Il binomio autolesionismo e personalità borderline non è sempre vero. Le condotte autolesive possono essere presenti nei disturbi d’ansia, da panico, nella depressione, nei disturbi alimentari, così come nel disturbo dissociativo dell’identità e nel disturbo bipolare.
Che significato ha, per un autolesionista, tagliarsi?
Prima di addentrarci nelle cause che inducono una persona a tagliarsi, soffermiamoci sul significato del taglio. Da un punto di vista evolutivo siamo portati all’auto-conservazione, allora perché gli autolesionisti si provocano lesioni? In realtà è proprio l’auto-conservazione a spingere l’autolesionista a praticare tagli sul proprio corpo. Il corpo, infatti, diviene l’unico mezzo per padroneggiare emozioni intollerabili che spesso neanche riescono ad affiorare alla consapevolezza.
Quando si pensa all’autolesionismo, l’errore più comune -commesso anche dai professionisti- consiste nel dare per scontato che l’autolesionismo sia un modo per distruggere se stesso, un fenomeno masochistico… oppure come un’autopunizione o un grido d’aiuto. In realtà non è affatto così, la ricerca ha sfatato l’ormai vecchio mito che vedeva le pratiche autolesive come tecniche manipolatorie per richiamare attenzione su di sé. L’autolesionismo, dunque, non è un grido d’aiuto, ne’ un fenomeno legato al masochismo.
La questione centrale della pratica autolesiva sta nel dare all’autolesionista un senso di padronanza e di controllo su se stesso, sulla propria vita e soprattutto sulle sensazioni intollerabili. In altre parole, il tagliarsi diventa un modo per ottenere controllo e quindi sollievo.
Attaccamento disorganizzato, indaghiamo le cause
Nell’indagare le cause delle condotte autolesive, non si può fare a meno di notare che la letteratura scientifica correla l’autolesionismo allo stile di attaccamento disorganizzato e, in maniera inferiore, allo stile di attaccamento evitante. Tutto questo è riconducibile alla regolazione affettiva.
Un bisogno fondamentale del bambino è ritrovare la propria mente nella mente del genitore: il bambino deve poter riconoscere se stesso e i suoi bisogni. Ciò che troppo spesso accade è che i genitori rimpiazzano i bisogni del bambino con i propri, ammonendo ogni manifestazione del piccolo che non rispetta le aspettative genitoriali. Il risultato è che il bambino non riuscirà ad autoregolarsi, ne’ a riconoscere i propri affetti. In questo contesto, le manifestazioni emotive divengono un peso da eliminare perché conducono inevitabilmente alla disapprovazione genitoriale.
Alla nascita siamo geneticamente programmati per costruire un legame di attaccamento, quindi usiamo tutte le risorse a nostra disposizione per preservare quel legame, anche al costo di reprimere le sensazioni che viviamo. Sempre alla nascita, disponiamo di risposte istintive che, proprio come l’attaccamento, risiedono nel nostro corpo.
Le risposte istintive di sopravvivenza come l’attacco (ferire se stesso o l’altro), la fuga (distanziarsi emotivamente e non), il congelamento (l’ottundimento), la sottomissione (il compiacere l’altro, accondiscendere) e l’attaccamento (creare un legame o fondersi), sono le uniche risorse a cui un bambino può attingere. Quando il bambino non può contare su un attaccamento sicuro e una buona regolazione affettiva e soprattutto, quando fa esperienze precoci di abuso (psicologico e non) la disconnessione emotiva (fuga), l’ottundimento e la dissociazione (congelamento) divengono strategie di sopravvivenza.
A mali estremi, estremi rimedi
Sentendosi senza speranza, sopraffatto, inadeguato, vulnerabile e solo, l’autolesionista vive l’esperienza di non aver un posto in cui stare, ha imparato fin da subito che l’ottundimento emotivo è più sicuro di qualsiasi emozione, così il tagliarsi diviene un rimedio estremo per un male estremo. Gli autolesionisti non hanno fatto esperienza dell’altro come una risorsa su cui contare, hanno difficoltà a chiedere aiuto e non vedono gli atti autolesivi come un problema.
Il comportamento autodistruttivo, quindi, ha origini nei sentimenti di terrore e annichilimento, nei sentimenti di isolamento, abbandono e di assenza di speranza… se queste sono le emozioni inconsce che scaturiscono i primi episodi di autolesionismo, successivamente, i tagli divengono un mezzo per regolare le emozioni soverchianti, qualsiasi esse siano.
Per l’autolesionista, il tagliarsi non è il problema ma la soluzione
L’autolesionista non si recherebbe mai spontaneamente in terapia per “correggere” le condotte autodistruttive, piuttosto quando gli autolesionisti arrivano nello studio clinico lo fanno per problemi di depressione, ansia o problematiche relazionali.
Il tagliarsi è una condotta congruente con l’essere stati trattati, in passato, come oggetti il cui benessere non ha avuto alcuna importanza. In caso di un legame di attaccamento non sicuro, a cui seguono minacce traumatiche (vissuti abbandonici, abusi psicologici, trascuratezza emotiva, abusi fisici…), il sistema nervoso del bambino si sviluppa in una condizione di iperarousal parasimpatico, tale condizione va a coadiuvare l’ottundimento e la dissociazione (Milton, 2006). L’autolesionismo, così come tutti i nostri comportamenti (funzionali o disfunzionali che siano) ha una matrice neurobiologica.
La base neurobiologica dell’autolesionismo
L’iperattivazione parasimpatica predispone il soggetto a non elaborare le emozioni, ne’ le esperienze vissute. Queste persone, infatti, usano poco la corteccia pre-frontale a favore dei sistemi difensivi istintivi. Così come spiegato nell’articolo sulla teoria neurobiologica dell’attaccamento, quando siamo bambini non solo sviluppiamo la nostra identità ma l’intero sistema nervoso si sviluppa sulla base del nostro ambiente di accrescimento. In altre parole, il bambino prima e l’adulto poi, impara a sopravvivere alle emozioni dissociandosi o minimizzando i propri vissuti. Paradossalmente, l’autolesionista non ha paura di ferirsi, sono i suoi stessi sentimenti a terrorizzarlo.
Ferire il proprio corpo (tagliarsi, bruciarsi, picchiarsi, ingerire oggetti appuntiti, graffiarsi…) arreca al corpo gli stessi effetti neurochimici di qualsiasi altro tipo di minaccia: il dolore stimola una massiccia produzione di adrenalina e un incremento del rilascio di endorfine. Il picco di adrenalina provoca un aumento di energia e di attenzione, sensazione di potere e controllo e un decremento della percezione emotiva e delle sensazioni corporee. Le endorfine provocano un successivo effetto rilassante. La risposta neurochimica ha un effetto quasi immediato così, l’autolesionista passa da uno stato di sopraffazione emotiva a uno stato di assoluto controllo.
Trattamento dell’autolesionismo: un lavoro retrospettivo
Il compito del terapeuta/analista, è accompagnare il paziente nella comprensione delle emozioni soverchianti e consentirgli di sviluppare una sana regolazione emotiva con una più ampia finestra di tolleranza. In assenza di una buona regolazione emotiva, l’autolesionista continuerà a identificarsi con le parti attacco o fuga e agire in base ai loro impulsi. Fornire una psicoeducazione sul perché l’autolesionismo sia divenuto “una soluzione” può alleggerire il senso di vergogna e vulnerabilità del paziente.
«L’abuso e la trascuratezza infantile, la violenza domestica e molti altri tipi di trauma condividono una caratteristica comune: il corpo, la mente e le emozioni della vittima vengono sfruttati dagli altri per gratificare i loro bisogni, esercitare un controllo o trovare un punto di sfogo per scaricare la tensione (Miller, 1994). Non sorprende che i bambini i cui corpi sono stati usati in questo modo possano poi diventare adulti che usano istintivamente il proprio corpo per scaricare la tensione o agire gli impulsi»*
Questi bambini, infatti, sono stati deprivati dalle normali esperienze di allentamento della tensione come il trovare conforto nell’altro (in un attaccamento sicuro), mentre l’abuso ha relegato il corpo a essere niente più che un mezzo per scaricare la tensione, senza avere nessun altro vero valore.
Se tutti gli altri bambini, in caso di stress riuscivano a entrare in contatto con gli altri, per i bambini con un attaccamento disorganizzato, l’altro non è mai stata un’opzione sicura. Questi bambini hanno dovuto imparare a fare affidamento esclusivamente sulle proprie risorse e le risposte istintive (attacco, fuga, congelamento…) sono divenute l’unica opzione di sopravvivenza. Per chi è cresciuto in un ambiente ostile, problemi come depressione e ansia sono molto frequenti.
*Libro consigliato sul trattamento dell’autolesionismo e di altre condotte a rischio: Guarire la frammentazione del sé – Come integrare le parti del trauma psicologico