Non si nasce madri, si nasce prima di tutto figlie, vero sì che nasciamo con una predisposizione innata alla cura dell’altro, ma nessuna sa già come si fa, finché qualcuno non ci fornisce un esempio da cui attingere. L’esperienza vissuta col proprio caregiver e l’osservazione delle altre relazioni materne che ci circondano ci danno un’idea vaga di cosa significhi essere madri.
Iniziamo a comprendere ciò che proprio non vogliamo essere e ciò a cui vorremmo potenzialmente somigliare. Nell’ambito del proprio nucleo familiare ha, inconsapevolmente, una forte influenza l’intergenerazionalità, ovvero la tendenza a ripetere o viceversa a evitare atteggiamenti ricevuti durante la propria infanzia dai propri genitori, questo modus operandi va così a costruire il proprio stile educativo.
Il bambino quando nasce ha come punto di riferimento l’ambiente in cui vive e non conoscendo altro, inconsapevolmente lo considera l’unico modello possibile, ignorando che nel mondo possano esistere altri modelli educativi possibili. Tutte le relazioni genitori-figli, inevitabilmente, sono condizionate dallo schema di comportamento interiorizzato dai propri genitori, quindi dal modo di educare dei nostri nonni.
Ogni genitore porta con sé bisogni inappagati, ha memoria di tutto quello che all’epoca è andato storto o ha lasciato delle ferite ancora non rimarginate e vive con l’augurio che i propri figli non dovranno subire lo stesso trattamento.
Una madre non deve essere perfetta, ma solo «buona a sufficienza»
Essere delle buone madri non significa darsi totalmente al proprio figlio. Il pediatra e psicanalista inglese D. Winnicott già dal 1960 sostiene che la madre deve essere “sufficientemente buona”, si intende che non deve essere troppo presente nella vita del figlio annullando la propria personalità e non permettendogli di crearsene una propria. Una mamma sufficientemente buona deve lasciare una porta socchiusa, deve creare lo spazio necessario per permettere al figlio, piano piano, di avvicinarsi all’autonomia.
Una madre buona a sufficiente, riesce a consentire all’altro di svincolarsi, di avere l’irresistibile desiderio di passare dalla dipendenza all’indipendenza. Deve generare curiosità nel proprio figlio per ciò che è diverso da sé, per ciò che è fuori da quel mondo ovattato in cui tutto è concesso e tutto è perdonato.
Un atteggiamento curioso stimola la creatività, la ricerca, promuove un pensiero che va oltre ciò che è visibile agli occhi e permette di scoprire il proprio sé. Il passaggio all’autonomia non deve però avvenire dal giorno alla notte in maniera netta e irriverente, ma lentamente, deve rispettare i tempi del soggetto, non dev’essere un momento traumatico. – Essere una madre sufficientemente buona non significa neanche catapultare il figlio nel mondo esterno privo di strumenti per affrontare i leoni che ci sono là fuori, né tantomeno farlo vivere in una campana di vetro, generando una sensazione di timore e paura verso il mondo esterno.
La ricerca del «partner-surrogato genitoriale»
Quali conseguenze quando una mamma è insufficientemente buona? Quando durante la vita adulta persiste costantemente ancora il bisogno di essere amato, stimato, riconosciuto, il soggetto avrà la tendenza a ricercare costantemente i cosiddetti “surrogati genitoriali” ovvero partner amorosi che in qualche modo possano dare l’illusione di colmare tale privazione. Inconsciamente, sentimenti negativi come rabbia, risentimento, delusione nei confronti degli oggetti d’amore primari, possono essere proiettati sul partner o sui figli come una sorta di vendetta di un trattamento ingiusto subito durante l’infanzia.
Quali conseguenze abbiamo invece da adulti quando abbiamo avuto una mamma troppo buona? Diversamente da quanto si possa credere non è solo la mancanza a causare dolore, anche un eccesso di amore, come nel caso di genitori troppo presenti, troppo apprensivi, sempre e sempre disponibili, disposti a qualsiasi tipo di sacrificio, può generare nel figlio da adulto la sensazione di essere sempre in debito generando un senso di colpa che porterà con sé per tutta la vita.
Paradossalmente, pertanto, proprio nel primo ambiente di crescita: la famiglia, il figlio non riesce a percorrere la strada che lo porta all’autonomia personale, poiché l’allontanamento viene vissuto come un tradimento, come una mancanza di riconoscimento per tutto ciò che la famiglia ha fatto per il suo benessere personale, quindi rappresenterebbe un atto sleale verso la famiglia d’origine.
Il processo di differenziazione dall’altro rappresenta un lungo e tortuoso sentiero personale che deve tenere in considerazione innanzitutto le proprie esigenze e non solo ed esclusivamente quelle dell’altro, come segno di riconoscenza al fine di non tradire le aspettative di chi ha fatto tanto per noi.
La madre “sufficientemente buona” dice Winnicott è “quella madre che sa concedersi di “regredire”, di diventare “piccola, piccola”, come il suo bambino, per meglio potersi sintonizzare su di lui, sul suo mondo interno e sui suoi bisogni. In questo senso, la mamma “sciocca” è la mamma che gioca con il suo bambino godendo del gioco che lei fa con lui, e più questo atteggiamento è presente, maggiormente ella è in empatia con suo figlio e lui in sintonia con lei. Questa sensibilità materna va a nutrire lo sviluppo della mente dei bambini”
Essere allora delle buone madri non significa essere perfette, siamo donne e siamo state figlie prima ancora di diventare madri, abbiamo le nostre fragilità, i nostri difetti e i nostri conflitti irrisolti. Avere amore nei confronti del proprio figlio senza annientare sé stesse e concedendo a chi ci è vicino di aiutarci è già un ottimo inizio, non dimenticate mai voi stesse, ricordatelo sempre.
Autore: Miriam Cassandra, Psicoterapeuta cognitivo-interpersonale