Perché diciamo “Sto Bene” quando in realtà non è così

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Dott.ssa in biologia e psicologia. Esperta in genetica del comportamento e neurobiologia. Scrittrice e founder di Psicoadvisor
n.b.: il genere grammaticale femminile usato nell’articolo vale anche al maschile.

Sto bene. Due parole dolci, rassicuranti e sintetiche. Le pronunciamo spesso ma altrettanto spesso questa formula è del tutto falsa.

In tono colloquiale, un “sto bene” detto per liquidare l’altro può starci. Il problema insorge quando quel “Sto bene” diventa un mantra e lo ripetiamo anche a noi stesse e ai nostri affetti più intimi finendo per attuare un sistematico evitamento emozionale. Quel “Sto Bene” arriva a celare tanta sofferenza, a camuffarla e addirittura a negarla.

Fingere che tutto stia andando al meglio

Quando affermi “Va tutto bene” ma dentro di te senti emozioni tumultuose difficili da interpretare, stai negando a te stessa i tuoi veri sentimenti, ti stai deprivando di un’esperienza emotiva significativa.

Dietro a un “Sto bene” si nasconde un ciclone emotivo:

  • emozioni difficili,
  • conflitti,
  • dubbi e paure,
  • vissuti mai elaborati,
  • vergogna,
  • sensi di colpa,
  • sensazione di non essere abbastanza,
  • senso di vuoto emotivo,
  • umore depresso,
  • convinzione di essere incompreso,
  • verità mai accettate e
  • tanta, tanta, inquietudine. 

Nel rapportarci agli altri, vogliamo che tutti pensino che la nostra vita funziona bene, che noi “funzioniamo bene”, che siamo capaci, forti… Desideriamo dare un’immagine integra quando in realtà dentro di noi siamo a pezzi. Tra un “sto bene” e l’altro, dentro di noi si sta svolgendo una lotta e la nostra vita a tratti sembra ingestibile. La corazza che mostriamo agli altri è l’incarnazione del nostro evitamento, ci evita ogni confronto e soprattutto ci evita di dover affrontare i nostri demoni interiori (quei conflitti irrisolti che hanno ancestrali radici).

In questa configurazione volgiamo l’attenzione su ciò che è fuori da noi e non su ciò che abbiamo dentro. Le strategie che mettiamo in atto sono molteplici: c’è chi si prodiga per il prossimo, cercando di risolvere i problemi degli altri piuttosto che dover affrontare i propri. C’è chi diventa ipercritico e sfoga le proprie frustrazioni sulle mancanze degli altri, così da non dover guardare le mancanze che si porta dentro. Molte persone si trasformano in autentiche crocerossine e prodigandosi per la salvezza dell’altro cercano il realtà la propria di salvezza. Gli scenari sono molteplici e tutti hanno lo stesso minimo comune denominatore: il rifiuto di districare il caos che c’è dentro di sé.

Quel “sto bene” per non deludere

Le radici di quel “sto bene” sono molto profonde: impariamo a negare i nostri malesseri per non essere di peso all’altro importante. Tutto è riconducibile ai modelli genitoriali che abbiamo avuto e al loro rapporto con le emozioni che esperivamo quando eravamo bambini.

Un genitore responsivo, fin dalla nascita del proprio figlio, funge da facilitatore emotivo e riesce a operare un “contenimento emotivo” quando il bambino ancora non sa gestire le proprie emozioni. In questo contesto, il bambino introietta una rappresentazione interna della persona che fornisce cure come stabile, accudente e funzionale.

Un genitore non responsivo che ammonisce le reazioni emotive e non è in grado di sintonizzarsi con i bisogni di sostegno e protezione del bambino, non consente di introiettare una rappresentazione interna della persona che fornisce cure.

Per rendere più comprensibile quanto scritto, fornirò degli esempi pratici delle più diffuse invalidazioni emotive che ingenuamente i genitori attuano nei confronti del figlio.

  • Non piangere sennò fai preoccupare la mamma”
  • I bambini buoni non fanno capricci”
  • Se tu piangi la mamma sta tanto male”
  • Rispondere ai capricci del figlio con urla aggressive ancora più forti
  • Rispondere alla collera con altra collera
  • “Devi essere un bambino buono sennò la mamma soffre”
  • “I bambini stupidi piangono”
  • “Vedi Michele come è buono, lui non piange”
  • “Stai piangendo per una sciocchezza”
  • Risposte di ansia eccessiva a una problematica emotiva/fisica del bambino
  • Allarmismi eccessivi a ogni reazione fisica/emotiva del piccolo

Le reazioni dei genitori ai malesseri dei bambini sono la prima esperienza di cura che facciamo. E’ da qui che impariamo come prenderci cura di noi, quanto possiamo contare sull’altro in caso di un nostro malessere… è da qui che impariamo quanto possiamo esprimere le nostre emozioni.

Se le uniche emozioni approvate dai nostri genitori erano quelle di gioia, impariamo che soffrire è sbagliato e che quando si soffre, meglio tenersi la cosa per sé tanto ogni manifestazione è inutile se non controproducente.

Ecco perché da adulti ci sembra più facile evitare sistematicamente i sentimenti difficilicovare tutto dentro. Nessuno ci ha insegnato a gestire la nostra “carica emotiva” in modo funzionale. Così, anno dopo anno, abbiamo accumulato un gran numero di conflitti senza mai dare alle “emozioni negative” un preciso significato, un’ideale collocazione.

Abbiamo imparato a tacere la sofferenza per non deludere le aspettative dell’altro o per non essere sopraffatti da un ulteriore carico. Abbiamo capito che possiamo contare solo sulle nostre forze perché nella nostra memoria non abbiamo interiorizzato l’immagine di un care-giver accudente. 

Ecco una notizia: ciò che hai imparato da bambino, oggi, non è più vero! 🙂

Dare significato alla sofferenza

La mancata espressione delle emozioni negative, a lungo andare, può essere devastante. Se hai negato i tuoi sentimenti e le tue emozioni per molti anni, mettere a fuoco ciò che ti porti dentro non sarà facile. Se vuoi avvicinarti a un autentico “sto bene” puoi partire proprio dai tuoi bisogni insoddisfatti. Un percorso psicoterapeutico potrà aiutarti e mentre maturi l’idea di consultare uno psicologo, puoi iniziare dalle emozioni che vivi su base quotidiana.

Se dai significato alla sofferenza e ai tuoi disagi, ti sarà più semplice elaborarli. Ricorda che tutto ciò che hai imparato durante l’infanzia, oggi non ha più un grande significato: i sentimenti che provi non fanno di te una persona “buona” o “cattiva”. Hai il diritto di soffrire e, invece di tentare di cambiare il modo in cui ti senti, sii benevola con te stessa, accetta i tuoi vissuti emotivi e cerca di essere “curiosa” nell’esplorare cosa stanno cercando di dirti.

A qualsiasi età puoi imparare a prenderti cura di te e della tua sfera emotiva. Uno psicologo è la persona ideale con la quale confrontarsi ma puoi fare molto anche fuori dal setting professionale. Per esempio, identifica una persona sicura e affidabile con la quale poter essere più autentica, con la quale condividere dubbi e incertezze senza temere alcun giudizio.

Per iniziare a lavorare su te stessa ti consiglio la lettura di questi miei articoli:

n.b.: il genere femminile vale anche al maschile.

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